Nel 1936 un balletto di Chaplin in tuta da operaio tra gli ingranaggi della macchina che lo aveva reso un automa consegnò al mondo la rappresentazione per immagini del fordismo, dell’alienazione, dei «Tempi moderni» appunto, come nel titolo del film. In The Founder di John Lee Hancock (in sala da domani) il «ballo» sincronizzato di decine di uomini che simulano quello che sarà il loro ruolo alla catena di montaggio del MacDonald’s – mettere due cetriolini, friggere le patatine a duecento gradi, cuocere ogni hamburger esattamente allo stesso modo – celebra invece il genio dei veri inventori della più grande catena di fast food al mondo: i fratelli Mac e Dick MacDonald, ideatori del primo ristorante della corporation a San Bernardino, California. L’alienazione, l’automazione, la dignità del lavoro non sono che lo sbiadito ricordo di un secolo ormai tramontato: al regista interessa solo il suo protagonista, un antieroe abbastanza crudele da essere di moda nell’anno che si apre all’insegna di Donald Trump.

Lui è Ray Kroc, cioè l’uomo che negli anni Cinquanta ha fondato il marchio e soprattutto l’impero finanziario sorto dalla catena di ristorazione. Interpretato da Michael Keaton, e cucito sulla sua performance di attore che vive oggi la sua seconda giovinezza cinematografica, Ray Kroc è l’incarnazione della perseveranza di fronte alle avversità. Venditore senza successo delle invenzioni più disparate, dal tavolino pieghevole ai bicchieri di carta, gira per gli Stati Uniti alla ricerca di una svolta. La moglie (Laura Dern) non incoraggia il suo entusiasmo e lui al cinema, da solo, guarda rapito Fronte del porto – le battute non si sentono, ma è certo che anche lui come l’ex pugile Terry Malloy pensa che avrebbe potuto essere qualcuno.

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Questo finché non incontra la sua miniera d’oro, il fast food Macdonald’s fondato da due fratelli che hanno coniato la formula vincente: la velocità nel servire i clienti garantita dalla catena di montaggio nelle cucine. Nella visione di Kroc gli archi gialli del Mac sarebbero stati i pilastri delle città americane quanto i crocefissi sui tetti delle chiese.

Era il 1954, e solo sedici anni dopo MacDonald’s aveva ormai raggiunto ogni singolo stato americano mentre si preparava a conquistare il mondo: tre anni fa è giunto perfino in Vietnam, a Ho Chi Minh, la città intitolata al leader che aveva condotto il Paese alla vittoria nella guerra contro gli Stati uniti.

In Italia – dove tra mille polemiche ha appena inaugurato un punto vendita al Vaticano – è invece sbarcato trentuno anni fa, aprendo i battenti a Roma in Piazza di Spagna con sommo sdegno del bel mondo cittadino, che fuori dalle sue porte brandiva con orgoglio spaghetti e supplì, mentre qualcuno biasimava l’invasione dei burini nel centro storico.

Ray Kroc l’aveva ben capito che il suo «sogno americano» vendeva junk food ma anche un’idea di eguaglianza: non a caso per mettere insieme l’ esercito di affiliati che avrebbe costruito il suo impero lascia il Country Club e diventa un assiduo frequentatore del Bingo.

Ed è proprio l’American Dream l’altro grande protagonista di The Founder, l’inarrestabile sogno del successo che anche attraverso i panini del Mac ha travolto tutti sul suo cammino, compresi i due fratelli campioni del fordismo che lo avevano inventato, sconfitti dal capitale di Kroc amministrato da una legione di avvocati e troppo all’antica per capire che proteggere la qualità del prodotto non consentiva l’efficienza produttiva di cui la loro creatura aveva bisogno per penetrare in ogni angolo del mondo.

Dell’universo di contraddizioni che gravita intorno alla emme gialla non c’è però traccia in The Founder, costruito da John Lee Hancock su un susseguirsi di dialoghi brillanti che non affondano né nella personalità del suo Citizen Kane né in quello che il suo impero avrebbe incarnato.