«He’s damn good», è proprio bravo, commentò il presidente Kennedy, che alla Casa Bianca aveva visto e ascoltato Martin Luther King nella diretta televisiva. Era il 28 agosto 1963, e il reverendo King aveva appena chiuso la grande manifestazione di Washington con quell’I have a dream che – pur essendo durato poco più di dieci minuti – sarebbe stato poi ricordato come uno dei grandi discorsi del Novecento. Nonostante la giornata molto calda, quasi tutte le 250mila persone che la «Marcia su Washington» aveva portato nella capitale erano rimaste nell’enorme spianata che va dal Campidoglio al Lincoln Memorial. Più di tutti, volevano ascoltare proprio King, infine introdotto da A. Philip Randolph, lui stesso uno dei decani della protesta e dell’orgoglio afroamericani, come «la guida morale del nostro paese». Era il momento culminante di una straordinaria manifestazione che le organizzazioni per i diritti civili avevano convocato per chiedere lavoro per gli afroamericani e far pesare sulla più che cauta presidenza Kennedy la richiesta indilazionabile di una legislazione che garantisse a tutti il pari godimento dei diritti e della dignità di cittadini.

Il palco era simbolicamente posto ai piedi della scalinata che porta alla statua di Lincoln, il presidente che mise fine alla schiavitù. Oratori neri e bianchi, personalità della cultura, della politica e dello spettacolo si erano succeduti al microfono. Trattative convulse, aggiustamenti e accordi dell’ultimo minuto avevano coinvolto oratori e organizzatori per ore, nell’intento di evitare discorsi «infiammatori» e dare alla manifestazione il valore di appoggio «costruttivo» a quanti, nel Congresso, avrebbero dovuto far avanzare la legislazione sui diritti civili (che Johnson, non Kennedy, avrebbe infine varato nel 1964).

Tra gli altri, avevano fatto discorsi importanti Walter Reuther, del sindacato dei lavoratori dell’auto; John Lewis, il giovane presidente dello Student Nonviolent Coordinating Committee (benché il suo intervento fosse stato preventivamente censurato nei passi in cui denunciava le passività di Kennedy e della politica ufficiale) e il rabbino Joachim Prinz, dell’American Jewish Congress. Peter, Paul and Mary avevano cantato Blowing in the Wind e Joan Baez, We Shall Overcome. Marian Anderson, che nel 1955 fu la prima nera a esibirsi al Metropolitan di New York, aveva proposto He’s Got the Whole World in His Hands, e Mahalia Jackson aveva portato l’emozione al livello più alto con I Been ‘Buked and I Been Scorned, uno spiritual dei tempi della schiavitù.

Il gran finale

Come nella ben orchestrata scala delle emozioni lungo cui si snoda l’oratoria pastorale afroamericana veniva ora il gran finale di Martin Luther King, che avrebbe ripreso tutte le precedenti modulazioni e avrebbe lasciato il segno conclusivo nelle teste e nei cuori. Tutte le reti televisive stavano riprendendo il palco; King aveva davanti a sé la selva dei microfoni delle radio collegate ed era circondato dagli organizzatori e dagli addetti al palco.
Iniziò con le ragioni della protesta. Cento anni fa, disse, il «grande americano nella cui ombra simbolica siamo oggi» firmò il Proclama di emancipazione degli schiavi, ma i neri non sono ancora liberi. La cambiale firmata dai Padri fondatori con il popolo nero non è mai stata onorata. Lo scontento è legittimo. La rivolta è necessaria e sarà duratura. Si chiede a chi lotta per i diritti civili: «Quando vi riterrete soddisfatti?». «Non lo saremo», rispose King, finché continueranno ingiustizie, violenze, discriminazioni, segregazione; non lo saremo, concluse citando il profeta Amos, «se non quando ‘la giustizia scorrerà come l’acqua e l’onestà come un fiume possente’».
Poi si rivolse direttamente alle persone davanti a lui riferendosi alle vicende di tante di loro e valorizzandone dedizione e impegno nelle lotte contro la segregazione dei dieci anni precedenti: «Non dimentico che qualcuno di voi è venuto qui al prezzo di grandi difficoltà e tribolazioni. Qualcuno di voi è arrivato direttamente da anguste celle di prigione. Qualcuno di voi è arrivato da zone dove, a causa del suo desiderio di libertà è stato investito dalla bufera della persecuzione e fatto vacillare dalle folate della brutalità poliziesca […]. Perseverate nella vostra azione, con la fede nella redenzione che deriva dal dolore immeritato. Tornate nel Mississippi, tornate in Alabama, tornate in South Carolina, tornate nella Georgia, tornate nella Louisiana, tornate negli slum e nei ghetti delle nostre città del Nord, sapendo che in qualche modo l’attuale situazione può essere cambiata e lo sarà».
Fin dall’inizio introdusse quelle iterazioni («Non saremo soddisfatti…», «Qualcuno…»; «Tornate…») che avrebbero poi raggiunto la loro massima forza espressiva nella ripetizione diventata famosa: «Io ho un sogno…», e nel crescendo delle frasi conclusive.

Oggi vi dico

Il decisivo cambio di focalizzazione e di registro, dal pubblico cui si rivolgeva a se stesso in quanto depositario di un «sogno», avvenne in una frase molto breve: «Oggi io vi dico, amici miei, che malgrado le difficoltà presenti e future, io ho un sogno». Di seguito, ripetendo la parola «sogno» e richiamando l’American dream («È un sogno profondamente radicato nel sogno americano»), King collocava se stesso e il proprio sogno nell’alveo più profondo della tradizione culturale del paese. È un passaggio di grande abilità retorica e pregnanza. Non contrapponendosi al «sogno americano» ma facendolo proprio, King legittimava la denuncia dello scarto tra la giustezza delle aspettative e l’ingiustizia del presente. Poi, aderendo a quel senso di missione che i Fondatori avevano assegnato all’America, assegnava a se stesso il ruolo profetico: come per un profeta biblico il sogno era la prefigurazione del futuro. Era chi impediva la realizzazione del sogno di uguaglianza e felicità fissato dalla Dichiarazione d’indipendenza a essere inadempiente e colpevole: «Io ho un sogno: che un giorno questa nazione si sollevi e viva secondo il vero significato del proprio credo – ‘noi riteniamo indiscutibili queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali’».
Quella che seguiva, pronunciata con la voce vibrante e le modulazioni dell’oratoria battista, era la parte centrale del discorso. Era il futuro:
«Io ho un sogno: che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli degli schiavi e i figli degli schiavisti potranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Io ho un sogno: che un giorno persino lo stato del Mississippi, uno stato che soffoca sotto la cappa dell’ingiustizia, che soffoca sotto la cappa dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.
Io ho un sogno: che un giorno i miei quattro giovani figli potranno vivere in una nazione che non li giudicherà per il colore della loro pelle, ma per l’essenza del loro carattere.
Io ho un sogno, oggi!
Io ho un sogno: che un giorno, giù in Alabama, […]bambini neri e bambine nere potranno stringere per mano bambini bianchi e bambine bianche come fratelli e sorelle.
Io ho un sogno, oggi!
Io ho un sogno: che un giorno ‘ogni valle sarà colmata e ogni monte e ogni colle saranno abbassati. I luoghi erti saranno livellati e i luoghi curvi saranno resi dritti. E la gloria del Signore sarà rivelata e ogni carne la vedrà ad un tempo’».

La profezia, conclusa con le parole di Isaia, non escludeva la necessità di continuare la lotta. Anzi, la fede da essa accesa ne sarebbe stata l’alimento inesauribile:

«Questa è la nostra speranza. Questa la fede con cui tornerò nel Sud. Con questa fede saremo capaci di estrarre dalla montagna della disperazione la pietra della speranza. Con questa fede saremo capaci di trasformare le stridenti discordie del nostro paese in una bella sinfonia di fratellanza. Con questa fede saremo capaci di lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme, andare in prigione insieme, difendere la libertà insieme, sapendo che saremo liberi un giorno. E questo sarà il giorno. Questo sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio potranno cantare insieme, rinnovandone il significato, ‘Paese mio sei tu, dolce terra della libertà, sei tu che canto. Terra dove i miei padri sono sepolti, terra dell’orgoglio del pellegrino fa’ che la libertà risuoni dal fianco di ogni montagna’».

Di seguito alla citazione del canto patriottico iniziava la sequenza conclusiva. Salendo a nuove vette oracolari, le parole del crescendo finale diventavano esortative e prefigurative insieme:

«Così, fate che la libertà risuoni dalle prodigiose colline del New Hampshire; fate che la libertà risuoni dalle possenti montagne di New York; fate che la libertà risuoni dalle vette degli Allegheny della Pennsylvania; fate che la libertà risuoni dalle Rocciose coperte di neve del Colorado; fate che la libertà risuoni dai declivi curvilinei della California. Ma non solo. Fate che la libertà risuoni dalla Stone Mountain della Georgia; fate che la libertà risuoni dalla Lookout Mountain del Tennessee; fate che la libertà risuoni da ogni colle e da ogni scavo di talpa del Mississippi. Dal fianco di ogni montagna, che la libertà risuoni.
E quando questo accadrà e quando faremo che la libertà risuoni, quando faremo che risuoni da ogni borgo e villaggio, da ogni stato e città, riusciremo ad avvicinare il giorno in cui tutti i figli di Dio, uomini neri e bianchi, ebrei e gentili, protestanti e cattolici sapranno stringersi per mano e cantare con le parole del vecchio spiritual nero: ‘Liberi infine. Liberi infine. Grazie a Dio onnipotente, siamo liberi infine’».

Poi venne l’incubo

Washington fu l’apoteosi del King pastore di anime, più profetico che politico. Ma dal ’64, mentre finiva la fase delle lotte per i diritti civili, le rivolte urbane nelle metropoli del Nord, che trovarono in Malcolm X e nei suoi continuatori i loro interpreti, gli sottrassero il proscenio. Poi venne il Viet Nam e King pagò duramente l’errore dell’appoggio a Johnson. Solo nell’ultimo anno di vita una svolta politica radicale, quando ammise che il sogno americano era diventato un incubo, gli restituì la credibilità perduta agli occhi della sua gente.

Oggi, a ricordare King a Washington sarà Barack Obama. La storia del movimento che King ha incarnato «è la mia storia», ha detto Obama, primo presidente afroamericano e insieme, però, «post-razziale»: anche se non l’avessero ammazzato King non avrebbe mai potuto arrivare alla Casa Bianca. Di Obama, quando parla fondendo il profetismo di King e la concretezza di Malcolm X, si può dire che è damn good. Ma per ritrasformare l’incubo in sogno, e per realizzarlo, non basta.