Non sempre lo scoviamo fra le sculture antiche e la ricchezza decorativa della Galleria Borghese. Ma quando d’improvviso appare, mimetizzato fra gli idoli egizi o «coperto» dai corpi possenti e mitologici del Bernini, è una festa per gli occhi. Alberto Giacometti, con i suoi filiformi uomini che camminano sull’abisso, penzolando pericolosamente sul bordo del vuoto è arrivato a Roma ed è planato nello scrigno di Villa Pinciana provocando non pochi spaesamenti visivi e concettuali.

Da oggi e fino al 25 maggio, lo scultore svizzero che amava gli antichi e la loro statuaria (anche se poi trasformerà l’eroismo classico in una serie di antimonumenti colpiti dalla disperazione esistenziale, consunti dalla quotidianità e spogliati dell’identità) sarà un occupante quasi clandestino – se si esclude l’ingresso dove si stagliano le sculture più grandi – delle sale che contengono i capolavori di diversi secoli. La sfida proposta – la mostra è curata da Anna Coliva e Christian Klemm – è impervia, ma alla fine si può dire riuscita. Anzi, lo è molto di più quando l’artista non è costretto da fondali bianchi a mostrarsi troppo, ma se ne può stare in pace, conquistando un angolo in solitudine.

Giacometti ha attraversato la Storia dell’arte in maniera obliqua e sia che lo si voglia collocare nel tempo presente, sia in un confronto stretto con i totem del passato, riesce a reggere sulle sue spalle tutta la cronologia che scorre. È una dote rara, la sua, significa saper essere contemporaneo sempre.

In mostra a Roma in quaranta opere c’è il Giacometti surrealista che scarta verso la dimensione onirica (Donna cucchiaio), quello che studia con diligenza i maestri, l’appassionato del primitivismo e l’alchimista che frugava negli albori della civiltà. Da quando nel 1920 a Firenze vide per la prima volta degli originali egizi non smise più di riproporle. Ne fu ossessionato, come per i volti e le teste che tanto si accaniva a scolpire, distruggere, rifare. «Riguardo alle sculture egizie – diceva – c’è un dato curioso: le prime a essere portate in Grecia erano rappresentate nell’atto di camminare, e i greci addirittura le legavano di notte perché non se ne andassero…». Ecco allora uomini e donne in cammino, silhouette ischeletrite, smangiucchiate dal vento, effimere presenze pronte ad eclissarsi nel nulla, inghiottite dall’Ade.

Disegnatore infaticabile, nel Vestibolo della Galleria Borghese c’è anche una testimonianza di quella sua attività: è un acquerello con Roma come soggetto, città in cui da giovane soggiornò, rimanendone affascinato.