Nel saggio che introduce il dialogo a quattro voci Nuovi disagi nella civiltà (Einaudi, pp. 201, euro 19), la curatrice del volume, Francesca Borrelli, nota come il celeberrimo testo del 1929 di Sigmund Freud inauguri, già con il suo titolo, un’associazione di parole che da allora è entrata a far parte del nostro lessico comune. Che la socialità sia attraversata dal disagio psichico non è certo una gran scoperta. Freud dà però dignità di enunciato scientifico a un’altra affermazione assai più radicale. Egli infatti assegna alla civiltà come tale la causa del disagio.
Il disagio è della civiltà nel senso del genitivo soggettivo, il disagio appartiene strutturalmente al processo stesso di socializzazione e di acculturazione dell’animale uomo, da esso ne consegue, come direbbero i logici, analiticamente. Data la «civiltà», ecco il disagio, ecco l’infelicità, ecco la rinuncia pulsionale. Sebbene si trovasse anticipata presso i filosofi più radicali della tradizione occidentale, dai cinici a Rousseau, questa implicazione, dopo Freud, ha costituito l’orizzonte di un dibattito filosofico antropologico e psicopatologico, di cui questo libro è un ulteriore capitolo.
Dopo aver ricostruito la storia di questa nozione, Francesca Borrelli pone sul tappeto la domanda che funge da filo rosso di tutto il dialogo e alla quale sono invitati a rispondere il filosofo Massimo De Carolis, gli psicanalisti Francesco Napolitano e Massimo Recalcati. La questione investe l’oggi: come, oggi, la civiltà causa disagio? Quali mutamenti sono occorsi nel passaggio dalla modernità – il tempo di Freud – alla post – o alla iper-modernità – del nostro tempo? Quali nuove forme del disagio sono venute alla luce e quale è la nuova figura del soggetto che la «macchina antropogenica» della civiltà ha prodotto? Come un fiume carsico, al di sotto di tutto il dialogo, scorre l’ipotesi pasoliniana della «mutazione antropologica»: ad essere in questione nelle trasformazioni sociali, economiche e tecnologiche dell’«oggi» è, infatti, la stessa natura umana.
La risposta freudiana del 1929 è nota: la possibilità della civiltà implica repressione delle pulsioni, una repressione inevitabile. L’istanza psichica denomina nata Super-Io se ne incaricherebbe lasciando il soggetto in una dimensione di «colpa» che, come dirà in quegli stessi anni Heidegger (Essere e tempo è del 1927), non è «ontica», non è cioè legata ad azioni contingenti, ma è «ontologica», vale a dire coessenziale alla natura del soggetto stesso. Quale che siano le sue azioni effettive, la «mancanza» del soggetto rispetto alla Legge è un dato oggettivo. Il suo disagio è perciò un dato strutturale. Non è una ferita in grado di cicatrizzarsi ma una vera e propria amputazione. L’unica strategia possibile è, secondo il lucido pessimismo freudiano, una ragionevole riduzione del danno. Uno dei nomi di tale strategia sarà proprio «psicanalisi». Nessuna via d’uscita dal disagio è infatti immaginabile senza compromettere l’esito del più grande sforzo che l’uomo abbia fatto per fornire alle sue azioni un orizzonte di significato (tale è infatti il senso della «civiltà» per Freud). Il ritorno ad un innocente «stato di natura» non viziato dalla colpa avrebbe soltanto il senso dell’entropia del sistema.
Su questo modello classico s’innesterebbe, secondo gli autori del libro, la «mutazione antropologica» post o iper-moderna. Oggi la macchina antropogenica funzionerebbe infatti diversamente. Il segnale più evidente dell’avvenuta mutazione sarebbe costituito dall’indebolimento del Super-Io e, quindi, da una diminuzione dell’angoscia per la colpa. L’oggi sarebbe segnato da un affievolirsi della repressione pulsionale al quale, però, non seguirebbe una «liberazione», come era, ad esempio, negli auspici dei lettori di estrema sinistra del Disagio della civiltà.
Al contrario, proprio grazie all’infiacchirsi dell’istanza della Legge, si assisterebbe alla produzione generalizzata di nuove forme del disagio, spesso ignorate dallo stesso Freud, perché non di tipo nevrotico ma decisamente orientate verso il paradigma psicotico. Anche Francesco Napolitano, che tra le varie voci dialoganti è la più fedele al dettato freudiano, riconosce che la tendenza all’acting, particolarmente a quello violento, è diventata un contrassegno della nostra civiltà, così come la coazione a ripetere ha preso il posto dell’elaborazione del ricordo.
Per Massimo Recalcati il disagio contemporaneo è generato da una civiltà che invece della minaccia della castrazione sventola la bandiera della promozione del godimento. Il Super-Io contemporaneo non è propriamente indebolito, ma un Super-Io perverso che esige il godimento come obbligo. Alla civiltà ancora patriarcale e severa del tempo di Freud si sarebbe sostituita, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, la civiltà neoliberale caratterizzata dalla coazione al consumo illimitato.
A guidare la civiltà non è più la legge della castrazione veicolata dal Nome del Padre, non è l’ideale del padre come condizione trascendentale capace di discriminare il bene dal male, il godimento lecito da quello illecito. Invece dell’opposizione «classica» freudiana tra legge e pulsione al godimento c’è ora un godimento compulsivo che si afferma come unica forma possibile della legge. Ma anche questa Legge perversa è gravida della sua specifica infelicità, un’infelicità questa volta muta e nuda, che nemmeno è capace di portare ad espressione il proprio disagio (alessitimica) e che perciò lo manifesta prevalentemente in sintomi che sono soprattutto corporei (disturbi alimentari, tossicodipendenze ecc.).
Ma non è solo il corpo vivente a soffrire. Il disagio investe anche il piano immateriale dell’immagine. Non ci si sente più a posto con la propria immagine pubblica, con quella immagine che offriamo agli altri. Non ci si sente adatti alle richieste dell’Altro alle quali si vuole tuttavia incondizionatamente aderire, perché essere come l’Altro mi vuole diventa il senso stesso della felicità ipermoderna.
Ai classici disturbi di adattamento, che in qualche modo tradivano ancora una resistenza inconscia alle richieste di conformità del Super-Io, si sostituiscono così i disturbi da iper-adattamento o da iper-normalità che la più recente letteratura ha segnalato (Joyce Mc Dougall). Alla dimensione della colpa, che implica comunque un riferimento ad una trasgressione della Legge vissuta nell’angoscia, si sostituisce quella della vergogna, che invece nasce dalla frustrazione di un desiderio di conformità e che, come afferma De Carolis, non è accompagnata dalla colpa. Alla scissione orizzontale della personalità tra l’«alto» del Super-Io e il «basso» delle pulsioni, si sostituiscono scissioni verticali, che fanno letteralmente a fette il soggetto, dissociandolo e pluralizzandolo.
A fungere da basso continuo in questa diagnosi collettiva è la convinzione che l’«al di là del principio di piacere» costituisca l’orizzonte del disagio contemporaneo e che per tale «al di là» valga, in ultima analisi, la lettura che ne fece il fondatore del metodo psicoanalitico nell’omonimo saggio del 1920: «al di là» ci sarebbe solo un «godimento» mortifero e rovinoso per il soggetto, oltre c’è Thanatos. Forse è da una diversa interpretazione di questo «oltre» che si potrebbe ripartire per provare a dare alla «mutazione antropologica» in corso un esito differente, questa volta rivoluzionario e non (iper)normalizzante.