A dispetto delle dichiarazioni di facciata, il governo Gentiloni nasce sulla rimozione del referendum costituzionale. Del suo risultato inatteso, e del suo vero significato, non liquidabile con il mantra del populismo: qualcosa di profondo si è messo in moto dal basso, uno smottamento rivelatore della società reale, frutto dei nodi di fondo del Paese (e dell’Europa) che stanno venendo al pettine: disoccupazione e lavoro povero, questioni giovanile e meridionale, pesanti effetti antisociali delle politiche di austerità, fallimento del tentativo di offrirne una variante smart, in grado di distrarre e illudere il ceto medio sempre più in difficoltà.

La società dei due terzi non esiste più: ora c’è quella, a stento, di un terzo: ovvero una larga maggioranza di italiani, ceti medi impoveriti e ceti subalterni, collegati dalla generale svalutazione e precarizzazione del lavoro, sperimentano ed esprimono una rinnovata questione sociale.

Nonostante i tentativi di esorcismo, la natura di spartiacque del referendum, che chiude un ciclo della politica italiana e apre lo spazio di una partita nuova, non può essere accantonata agevolmente.

Ormai è chiaro che Renzi ha rappresentato la fase umbratile e incattivita del ciclo neoliberista, iniziato nei primi anni Ottanta e poi proseguito dalle sinistre “riformiste”, che contavano di gestirne una versione temperata. Ma la crisi ha reso evidente l’insostenibilità sociale del regime delle compatibilità ordoliberali in Europa e le conseguenze nefaste, in termini di anomia e caos geopolitico, dell’identificazione ingannevole tra globalismo neoliberale (antistatale e postdemocratico) e internazionalismo (che è tutt’altra cosa).

Guardando al panorama post-referendum, occorre partire da un punto analitico pregiudiziale: il No è stato “costituzionale” proprio perché “sociale” e “partecipativo”: e questo non solo nel senso di quella parte (secondo gli studi sui flussi, circa un terzo di chi ha votato No: un dato per nulla disprezzabile, da valorizzare) che ha adottato questa decisione per ragioni consapevolmente riferite alla specificità giuridico-istituzionale del quesito.

Ma anche per chi ha votato No, e sono stati la gran parte (soprattutto al Sud e tra i giovani), per manifestare un senso di profondo disagio sociale ed esclusione. Proprio perché la vera posta in gioco era la prima parte della Costituzione, il progetto di società fondato sul riconoscimento della dignità del lavoro e dei diritti sociali come fattore decisivo di inclusione democratica, chi ha votato No perché ha sentito sulla sua pelle gli effetti delle politiche del governo Renzi e ha percepito la natura ingannevole e offensiva della propaganda renziana su un Paese immaginario in cui tutto “cambia verso”, ha espresso d’istinto un voto politico per il costituzionalismo sociale.

Controriforme come il Jobs Act e la “buona scuola”, così come la spinta alla privatizzazione dei beni pubblici, hanno reso evidente ai più la natura antisociale, estranea alla Costituzione, della politica renziana.

Per questo il referendum abrogativo sul Jobs Act era così temuto. Nonostante la Consulta lo abbia amputato del quesito sull’articolo 18, depotenziandolo, i quesiti superstiti possono comunque rappresentare un’occasione di riappropriazione popolare della politica in termini di cittadinanza sociale. Non solo: va valutata attentamente la possibilità di riproporre il referendum sul “diritto di licenziare” (come lo definì Renzi), in una formulazione tale da eliminare qualsiasi appiglio formalistico per stopparlo.

Non è la prima volta che la Costituzione viene “salvata” non dalle cosiddette élites (tranne meritorie quanto ristrette minoranze intellettuali fuori dal coro), ma da una mobilitazione popolare. La quale ha colto ciò che l’establishment raccolto intorno al Pd non è più in grado di capire: la responsabilità delle difficoltà del Paese non sono della Costituzione.

Semmai ci sono fattori interni di altro genere (lo svuotamento dei corpi intermedi e le zavorre italiche non scalfite) e fattori esterni (i vincoli ordoliberali dell’eurozona), che saldati ci affossano. Ma la sconfitta del disegno politico ordito da Napolitano, in accordo con i poteri forti globali, a partire dal governo Monti, e che Renzi ha fatto proprio mascherandolo di rottamazione, deve oggi aprire la strada a un rinnovata politica della Costituzione. La domande popolari, pur con la loro carica di ambivalenza, ci sarebbero: manca, per ora, il soggetto collettivo che le canalizzi ed esprima credibilmente. Ma ciò non può farci regredire su posizioni ambiguamente compromissorie (stile Pisapia), o coltivare l’illusione che semplicemente eliminando Renzi, ma senza una riflessione critica che affronti in modo spietato le ragioni del fallimento del Pd e gli stessi limiti evidenti della sinistra radicale, sia possibile intercettare la straordinaria energia che intorno alla Costituzione ancora una volta si è raccolta.