Mentre Nicola Zingaretti nella sua lunga relazione alla direzione Pd cerca invano solidi appigli per motivare la decisione di votare Sì al referendum, tocca a Dario Franceschini dire la nuda verità: «Semplificherei il nostro Sì con una cosa che in politica bisogna sempre avere presente: pacta sunt servanda». Prosegue il ministro della Cultura: «Quando abbiamo fatto nascere questo governo una delle condizioni più importati posta dal M5S era la riduzione dei parlamentari. Noi abbiamo detto sì e lo abbiamo votato in Parlamento». Poi una stoccata al fronte del No, che anche ieri si è fatto sentire, da Gianni Cuperlo a Matteo Orfini e Luigi Zanda. «Perché un anno fa nessuno ha detto una parola? Pacta sunt servanda non vale solo per i nostri interlocutori, vale anche per noi». Alla fine l’ordine del giorno sul referendum viene messo ai voti: 188 i favorevoli, 18 i contrari, 8 gli astenuti, mentre in 11 non hanno partecipato al voto.

IL SEGRETARIO FA DI TUTTO per allontanare l’idea di un Sì che accarezzi l’antipolitica dei 5 stelle. Dice di comprendere le ragioni del No, assicura che il suo non è certo un Sì «con le motivazioni banali» dei risparmi che «saranno minimi», ma per lanciare «un più ampio percorso di riforme». Zingaretti fa sua l’idea lanciata ieri da Luciano Violante di una raccolta firme del Pd per superare il bicameralismo paritario. E cioè separare i ruoli di Camera e Senato, dando alla prima la priorità nella fiducia ai governi e nel processo legislativo. Una proposta che lascia freddi i 5 stelle, e che -pur con diverse formulazioni- è già stata bocciata dagli italiani nei referendum del 2006 (la riforma Bossi-Berlusconi) e del 2016, quando a cadere sotto il peso dei No fu la riforma Renzi-Boschi.

Secondo il leader, riproporre l’idea che ha comunque segnato i programmi del centrosinistra negli ultimi decenni «sarà un modo per unire il Pd». E comunque, assicura, «è generico e anche un po’ strumentale prevedere che dalla vittoria del Sì partirebbe un vento populista inarrestabile, un pericolo per la democrazia». «Io non ho mai ceduto all’antipolitica e non lo farò mai», ricorda Zingaretti. E lancia un sasso a Renzi: «Purtroppo ci sono stati in passato cedimenti all’antipolitica, come al referendum (del 2016 ndr), quando furono usati argomenti demagogici». Ad esempio lo slogan «Tagliamo i politici». «Si tratta di andare avanti su di una scelta, la riduzione, che abbiamo più volte proposto, anche se sempre in un quadro di trasformazioni più ampie», gli fa eco la responsabile riforme Roberta Pinotti, «il superamento del bicameralismo resta la nostra stella polare».

UNA STELLA CHE, nonostante l’appello di Franceschini alle opposizioni per un «lavoro comune», pare destinata a non brillare, almeno in questa legislatura. Mentre la nuova legge elettorale proporzionale dovrebbe avere proprio oggi- salvo sorprese- il primo via libera dalla commissione della Camera, con l’adozione del testo base grazie alle astensioni di Italia Viva e di Leu. Sul testo di legge firmato da Federico Fornaro che corregge le circoscrizioni del Senato – e che al pari della legge elettorale dovrebbe arrivare nell’Aula della Camera a fine settembre – sono arrivati oltre 800 emendamenti del centrodestra, chiaro segnale di una volontà di ostruzionismo.

PIÙ IN DISCESA la strada di Zingaretti sul rapporto col governo Conte bis. «Difendo una scelta sofferta ma lungimirante», spiega. E il successo del Recovery Fund «è arrivato grazie a noi, che abbiamo spostato il M5S fuori dagli euroscettici, altro che inerti e subalterni». Chiama il partito alla lotta in queste settimane «cruciali» in cui il Pd si trova solo contro le destre in quasi tutte le regioni al voto. «Non credo che con la vittoria del No cadrebbe il governo», mette le mani avanti. Poi bastona gli alleati che non hanno voluto alleanze locali «proponendo candidature velleitarie», in particolare in Puglia: «Un errore paradossale». A Salvini, che con un 7 a 0 alle regionali pronosticava la fine del governo, risponde: «Lui sogna, il Pd con le sue alleanze lo impedirà». Lo stesso Salvini ieri ha fatto retromarcia: «Si vota per le Regioni, il governo non c’entra nulla».

UN MESSAGGIO anche a Giuseppe Conte, che stasera a sorpresa sarà ospite alla festa nazionale dell’Unità a Modena, come segno tangibile di vicinanza al leader dem dopo un’estate di tensioni: «Noi siamo al governo finché questo governo fa cose utili». E cita anche alcuni capitoli: il sì al Mes per la sanità, il piano per spendere i 200 miliardi del Recovery: «Il Pd vigilerà». A sera la parte politica della relazione ha ottenuto 203 sì, 1 astenuto e 6 non votanti. «Un grande successo», sorridono al Nazareno. Cuperlo però ricorda: «Dopo le regionali serve un chiarimento sulla strategia. Sarà Nicola a decidere se con un congresso». Francesco Verducci dei Giovani Turchi rincara: «Noi restiamo nel Pd, ma c’è stata una frattura».