Agli inizi del XXI secolo la gran parte dei governi dell’America Latina imboccava la strada delle riforme sociali e sposava politiche di salvaguardia ambientale, il cosiddetto «ecosviluppo» che metteva al primo posto il rispetto e la cura della Pachamama (Madre Terra nella lingua dei nativi americani).

Popoli che avevano vissuto negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso sotto terribili dittature, che avevano sofferto sulla propria pelle il crollo finanziario ed economico determinato da scellerate politiche neoliberiste (Argentina in primis, ma non solo), volevano voltare pagina.

Nacque così quello che venne chiamato « il socialismo del XXI secolo» che per la verità metteva sotto lo stesso ombrello modelli socio-economici diversi, da quelli più radicali – Bolivia, Ecuador, Venezuela, Uruguay – a quelli che potremmo definire socialdemocratici, come il governo Lula in Brasile, e neopopulisti come i Kirchner in Argentina. Mentre i paesi occidentali più ricchi venivano investiti da crisi finanziarie e bassi tassi di crescita, i paesi dell’America Latina godevano di tassi di crescita mediamente più alti fin dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso.
Una riconvergenza fra Sud e Nord mondiali, secondo le note indicazioni di K. Pomeranz.

Ma a partire dal 2007 la Recessione che ha colpito duramente gli Usa e poi la Ue, ha avuto serie e durature ripercussioni nei paesi dell’America Latina, portando in pochi anni a un ribaltamento dei governi neopopulisti e socialdemocratici. Non solo. Mentre, dal 2011, sia pure con ritmi diseguali gli Usa e i paesi della Ue riprendevano la strada della crescita economica, l’America Latina sembra essere entrata nel vortice di una Lunga Recessione dove non si vede l’uscita dal tunnel. In breve, la «Grande Recessione» ha fatto registrare, questa volta con segno rovesciato, una profonda divergenza tra l’economia dei paesi forti e quella dei paesi latinoamericani. Come si spiega questa distonia rispetto ai cicli economici mondiali ?

È la domanda che si pone Daniele Pompejano nel suo ultimo saggio «Divergenze americane nella grande recessione» (Bruno Mondadori ed., 2018) , dopo un’ampia e ricca disamina di dati economici viene data una, a mio avviso, convincente spiegazione di questa discrasia, collegando il ciclo politico latino-americano con la struttura economica di questi paesi. Emerge un fatto che, senza cadere in facili determinismi, mostra come lo slancio verso le riforme sociali e un altro modello di sviluppo fossero basati essenzialmente sull’andamento positivo dei prezzi delle materie prime.
In breve su un meccanismo di redistribuzione degli extra-profitti quando il mercato mondiale tirava verso l’alto i prezzi di queste commodities.

Quando, in seguito alla recessione dei paesi occidentali, questi prezzi sono crollati, la gran parte dei paesi latino-americani è stata travolta da questo crollo, prima sul piano economico e immediatamente dopo sul piano politico. In sostanza, quello che Pompejano mostra con estrema lucidità è la dipendenza di quest’area del mondo dall’export di materie prime o di semilavorati a basso valore aggiunto che rendono estremamente fragili queste economie e esposte ai venti dei cicli economici globali.

Il fallimento del cosiddetto «socialismo del XXI secolo» più che agli errori dei governi o dei leader più o meno carismatici è derivato dal non aver modificato il modello di sviluppo, a partire dalla dipendenza dell’export di petrolio e delle materie prime agricole. E così, mentre l’Occidente usciva lentamente dalla crisi più pesante degli anni Trenta – che Pompejano analizza nella sua diversità dall’attuale e da quella degli anni Settanta e Ottanta – i paesi latinoamericani sono dentro una pesante recessione che si annoda con scenari politici preoccupanti.