Quando si parla di aumento del debito pubblico, la narrazione dominante associa la definizione all’aumento della spesa pubblica, con tanto di giudizio morale sugli italiani che, per decenni, «hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità». È così che viene spiegato il raddoppio del rapporto debito Pil, avvenuto negli anni ’80 del secolo scorso, quando passò dal 60% a oltre il 120%. Sono gli anni di Craxi e della «Milano da bere», quando vengono sdoganati, anche a sinistra, l’individualismo e l’arricchimento.

Eppure, i dati ufficiali sulla spesa pubblica di quel decennio raccontano un’atra verità: infatti, al netto della spesa per interessi, la spesa pubblica italiana è passata dal 42,1% del Pil nel 1984 al 42,9% nel 1994, mentre, nello stesso periodo, la media europea vedeva un aumento dal 45,5% al 46,6% e quella dell’eurozona dal 46,7% al 47,7%. Ovvero, sia in percentuale assoluta, sia in percentuale di aumento relativo, la spesa pubblica italiana si è costantemente posizionata a livelli inferiori rispetto al resto dell’Ue e dell’eurozona.

Se poi andiamo ad analizzare gli anni dal 1990 ad oggi, scopriamo che per ben 26 anni su 28, il nostro bilancio si è chiuso con un avanzo primario – uscite inferiori alle entrate, al netto degli interessi sul debito – determinando un record mondiale per il nostro Paese.

Non è dunque sul versante della spesa che vanno cercate le cause del nostro debito pubblico e, a chi agita la parola d’ordine degli sprechi e della corruzione, occorre rispondere come questi fatti – reali – siano da considerare non una causa, bensì un’aggravante delle peggiorate condizioni di vita delle fasce deboli della popolazione: si è speso poco e, oltretutto, una parte consistente di quel poco è stata dirottata verso interessi privatistici, familistici, quando non direttamente mafiosi.

Quasi nessuno affronta l’esplosione del nostro debito pubblico dal versante delle entrate, eppure è su questo crinale che si possono trovare risposte, non solo alle difficoltà finanziarie dell’oggi, ma anche alla drammatica diseguaglianza sociale che attraversa il presente.

Non stiamo parlando solo della macro-questione dell’evasione fiscale (dai 105 ai 130 miliardi l’anno), rispetto alla quale anche il «governo del cambiamento» si muove in diretta continuità (aggiungendo un sovrappiù di comicità) con quanti negli anni passati l’hanno ritenuta nei fatti una scelta di politica economica per attrarre capitali.

Stiamo parlando della fiscalità generale che, dal 1974 ad oggi, ha modificato la propria natura, trasformandosi, da principio costituzionale di contribuzione progressiva al benessere collettivo a seconda delle capacità economiche di ciascuno, a costante trasferimento di ricchezza dal mondo del lavoro al mondo dei profitti, che attendono solo la Flat Tax del nuovo governo per completare il ciclo.

C’entra tutto questo con il debito pubblico? La risposta è affermativa e si evince dal rapporto «Riforme fiscali e debito pubblico italiano» stilato da Cadtm Italia (Comitato per l’annullamento dei debiti illegittimi), che verrà presentato ufficialmente a Roma sabato 27 ottobre (http://italia.cadtm.org/riforme-fiscali-e-debito-pubblico-italiano/).

Un primo passo politico fondamentale, al quale dovrebbero porre massima attenzione tutti i settori attivi della società, perchè senza mettere in discussione il mantra «C’è il debito, non ci sono i soldi» sarà impossibile arginare il conseguente «Se i soldi non ci sono, prima gli italiani!», divenuto la cifra politica di un governo che della differenziazione sociale ha fatto il proprio carburante.