Arriva il soccorso nero per la riforma costituzionale di Lega e 5 Stelle che altrimenti difficilmente avrebbe avuto i numeri per passare. Stamattina il senato vota per l’ultima volta il taglio dei parlamentari – da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori – e agli alleati di governo serviranno i 18 senatori di Fratelli d’Italia per avere la certezza di raggiungere la maggioranza assoluta dei componenti l’assemblea, necessaria per la seconda deliberazione di una modifica costituzionale. Centossessanta voti la soglia magica, 168 quelli teoricamente a disposizione della maggioranza (5 Stelle + Lega + 4 senatori del gruppo misto) ma solo 144 quelli effettivamente raccolti da questo schieramento a marzo, nel precedente passaggio a palazzo Madama. I senatori di Fd’I sono indispensabili per compensare i contrari e i dubbiosi di 5 Stelle e Lega, ai quali questa mattina basterebbe non presentarsi. Avendo esaurito gli argomenti per giustificare l’appoggio a una riforma che pure giudica «un’occasione mancata», Giorgia Meloni ha detto ieri che il suo è un gesto di generosità: «Non abbiamo chiesto nulla in cambio».

Nulla, tranne dimostrare di essere sostegno indispensabile per la maggioranza gialloverde che Fd’I cerca da tempo di trasformare in verdenera. Anche Meloni si rende conto che il presidenzialismo, bandiera agitata ancora un po’ in conferenza stampa, è del tutto fuori dell’orizzonte di questa legislatura. In ogni caso bisognerà verificare se non ci sia qualche senatore dissidente anche dentro Fd’I: la volta scorsa mancarono sette voti su diciotto, assenti che potrebbero essere sufficienti a far saltare tutto. Viceversa non si può escludere qualche sostegno corsaro dai senatori di Forza Italia, partito che nella prima deliberazione sia alla camera che al senato aveva votato a favore. Almeno uno, Quagliariello, si è già smarcato dal ripensamento del gruppo. Quel che è certo è che resterà lontanissima la soglia dei due terzi (212 voti) che escluderebbe il referendum confermativo. La possibilità di chiederlo resterà così a disposizione delle opposizioni (un quinto dei membri di una camera) che però non sembrano averne alcuna intenzione. Pur votando no, né Pd né Forza Italia né Leu hanno azzardato l’eventualità di chiamare i cittadini alle urne per bloccare una riforma che si immagina comunque popolare. Dovrebbero pensarci i cittadini da soli, lanciandosi in una raccolta di firme (500mila in tre mesi) difficile e in un referendum quasi impossibile.

L’ultimo atto di questa riforma si compirà alla camera, a settembre secondo i piani dei 5 Stelle. Mentre entro la sospensione estiva dei lavori dovrebbe fare un passo in avanti, sempre in senato, l’altra revisione costituzionale, quella che introduce il referendum propositivo. In questo caso siamo alla prima deliberazione e certamente il senato cambierà il testo approvato dalla camera, costringendo a una seconda lettura.

Sul tema della «democrazia diretta», come da slogan grillino, la maggioranza sta infatti confermando quell’apertura alle ragioni dell’opposizione che non ha avuto nel caso della riduzione dei parlamentari. In prima commissione al senato i relatori hanno cambiato profondamente il testo, prevedendo che le leggi di iniziativa popolare rafforzate – quelle sostenute da 500mila firme che se le camere non ratificano in 18 mesi vengono sottoposte a referendum propositivo – non potranno avere come oggetto una modifica costituzionale. E saranno soggette ad altri limiti, come quello di non avere contenuto meramente abrogativo o non prevedere adeguatamente i mezzi finanziari per fare fronte a nuovi oneri, sia nel momento in cui vengono proposte al parlamento che quando eventualmente vengono sottoposte al referendum. Ma questi limiti, raccogliendo le richieste delle opposizioni – che alla camera avevano sollevato il problema opposto – saranno tolti dalla Costituzione e inseriti in una legge di attuazione costituzionale. Cambia anche l’organo che dovrà verificare la natura non meramente formale delle modifiche che il parlamento eventualmente farà al testo dei promotori: non più la Cassazione ma la Corte costituzionale. Infine un passo indietro sul nuovo quorum, che per i referendum propositivi è stato legato ai Sì – dovranno essere la maggioranza e almeno un quarto degli aventi diritto al voto – e che invece resterà fermo al 50% più uno dei votanti per il «vecchio» referendum abrogativo.