Magari Piero Fassino ce la farà in volata, ma il potere delle lunghe amministrazioni di centrosinistra torinesi – dall’elezione di Valentino Castellani, nel 1993, in poi – pare in queste ore scricchiolare. «Fassino non può non vincere, altrimenti finiscono non solo Torino e il Piemonte ma molte altre cose», ha tuonato il banchiere Enrico Salza, che ventitré anni fa, insieme all’ex presidente del Collegio dei Costruttori Mario De Giuli, benedisse «Alleanza Torino», la lista centrista che con l’allora Pds sosteneva il professore del Politecnico in un inedito centrosinistra che dal rivale al ballottaggio, Diego Novelli (sostenuto da Rifondazione e dalla Rete), fu definito «una marmellata».
La marmellata ha vinto e ha resistito per tanti anni, anche con cifre bulgare: il 66% di Sergio Chiamparino nel 2006. Altri tempi. E così, in questi giorni sotto la Mole, sembrano riecheggiare le note della parodia di Corrado Guzzanti che nei panni di un disperato Ugo Intini cantava, in una puntata di Avanzi, «Non può crollare il Sistema». Era il 1993, l’anno della metamorfosi della sinistra torinese (e nazionale).
In ventitré anni Torino è cambiata: ha messo in luce un centro sfavillante e turistico, ha aperto la sua prima linea di metropolitana (in notevole ritardo rispetto alle omologhe europee, ma d’altronde era la città degli Agnelli e della gomma), ha inaugurato i suoi primi grattacieli e ha ospitato le Olimpiadi, che hanno però provocato un notevole debito nelle casse comunali. Nel frattempo la Fiat, che nel Novecento è stata «la parte per il tutto», abbandonava piano piano la metropoli sabauda. Un’uscita di scena accompagnata e mai negoziata dall’amministrazione di centrosinistra: Fassino nel 2011 disse pubblicamente che avrebbe votato sì al referendum sull’accordo proposto da Sergio Marchionne.

Il cambiamento è innegabile, ma dai benefici sono state tagliate fuori le periferie. Non è solo la vulgata anti-fassiniana a dirlo: lo ha sostenuto, per esempio, il Rapporto Rota descrivendo una metropoli polarizzata dove aumentano sia i cittadini ad alto reddito sia quelli a bassissimo reddito e dove gli stranieri soffrono di più la crisi. I quartieri che maggiormente patiscono la condizione economica e sociale critica sono quelli del Nord della metropoli e sono quelli che non godono dei minimi segnali positivi che investono, invece, altri segmenti della area urbana. E lo sostiene la Caritas: «Dal 2007 a oggi i poveri sono raddoppiati, le persone che in città e nella prima cintura vivono in una condizione di povertà assoluta o relativa sono ormai circa il 15 per cento». In totale sono 100 mila. I poveri oggi hanno il volto dei cassaintegrati, dei padri separati o di chi ha finito i propri risparmi.

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Le periferie sono i luoghi dove ha fatto maggiormente breccia Chiara Appendino, candidata del Movimento 5 stelle che nel ballottaggio spera nella rimonta su Fassino. Alle Vallette, estremo nord-ovest della città, quartiere operaio dove hanno sede il carcere e lo stadio della Juventus, la pentastellata ha fatto il pieno dei voti superando lo sfidante del Pd: 36,1% contro il 34,5%. L’ex segretario dei Ds è stato invece maggiormente apprezzato nei quartieri del centro: a Crocetta e centro storico ha incassato il 50,1%. Saranno le periferie a decidere il ballottaggio? Difficile dirlo. Inciderà molto l’affluenza al voto, che nel primo turno non è stata esaltante, 57,2% contro il 66,5% delle precedenti amministrative e il 77% delle politiche del 2013.

Dal lavoro alle grandi opere, dalla povertà alla cultura, dal commercio alla sicurezza, Fassino e Appendino hanno proposto ricette spesso contrapposte. Il primo punta a far valere continuità ed esperienza. La seconda può intercettare un elettorato più variegato per un voto in minor parte «per» e in maggior parte «contro», in questo caso contro il Sistema Torino, quella relazione di poteri che ha governato per oltre vent’anni la città. I due candidati sono andati caccia del voto degli ultimi indecisi. La sinistra che con il negativo risultato di Giorgio Airaudo non ha un proprio candidato si dividerà alle urne. Quello che è certo è che sarà una battaglia mai così incerta da vent’anni a questa parte. Una battaglia da fine epoca.