C’è stato il modello T della Ford, poi la Lexus della Toyota, le scarpe da ginnastica della Nike, il McIntosh firmato dalla Apple, il sistema operativo della Microsoft. L’elenco potrebbe continuare a lungo, perché ognuna di queste merci ha simbolicamente rappresentato momenti, episodi dello sviluppo mondiale del capitalismo che ne esprimono la vocazione mondiale, scandita dai media mainstream come fosse un sistema operativo. E come ogni insieme di programmi informatici di base prevede applicazioni per gestire unità centrali e unità periferiche. Istituzioni come la Banca mondiale, il fondo monetario internazionale, il Wto, l’Onu, l’Unione europea possono essere variamente considerate unità centrali o periferiche di una successione che parla di una versione 1.0 della globalizzazione, alla quale segue la 2.0, mentre dal 2011 il pianeta terra è entrato nella globalizzazione 3.0.

Quest’ultima «tappa» ha come simbolo un piccolo, potente e intensamente pubblicizzato aspirapolvere, quello della britannica Dyson, prodotto da una manciata di fabbriche disseminate nel pianeta ed espressione di un ecosistema innovativo che si avvale di un concentrato di conoscenze tecnico-scientifiche e tecnologie prodotte nelle università, nei laboratori ricerca e sviluppo del network produttivo attivato proprio dalla impresa inglese.

LA GLOBALIZZAZIONE 3.0 è considerata come l’era dei flussi di conoscenza tecnico-scientifica, delle strategie di marketing, dell’uso intensivo di informatica e di intelligenza artificiale nella gestione di una impresa come un organismo dove i molteplici componenti devono essere sincronizzati come un orologio. Altro fattore che differenzia l’attuale globalizzazione da quelle precedenti è che le sue merci simbolo sono quelle destinante non a un mercato di massa, bensì a un pubblico affluente, ricco. La produzione di merci di lusso è quindi la mission fondamentale della globalizzazione 3.0.

Che la conoscenza fosse fondamentale nella produzione di merci era però evidente anche nei decenni passati, dove lo stato nazionale era anche uno «stato innovatore», mentre la circolazione mondiale della conoscenza era gestita prima dal Gatt e poi dal suo erede, il Wto, secondo i criteri della proprietà intellettuale. Attualmente, lo schema non è molto differente. Lo stato nazionale continua a funzionare come stato innovatore, anche se il Wto non gode di ottima salute. Molti paesi infatti preferiscono aggirare le sue norme internazionali attraverso accordi bilaterali o regionali. Nella globalizzazione 3.0 lo stato continua dunque a essere «innovatore», proseguendo allo stesso tempo a svolgere il ruolo di interfaccia tra locale e globale. Neppure il decentramento produttivo è messo in discussione, anzi è spinto al parossismo, sottolineando così il fatto che questi anni non sono anni di deglobalizzazione, bensì anni che vedono una nuova e ambivalente configurazione tra locale e globale, senza che questo metta in discussione la vocazione mondiale del capitale.

NON È LA PRIMA VOLTA che la storia del capitalismo è scandita come una successione graduale di stadi di sviluppo tendenti a un fine già inscritto nella genesi di un modo di produzione. Sono un esempio di questa concezione dello sviluppo capitalistico due volumi pubblicati da il Mulino. Il primo è dell’economista statunitense Richard Baldwin, l’altro è dello storico dell’economia Joel Mokyr.

Richard Baldwin affronta La grande convergenza (pp. 324, euro 28) tra conoscenza e produzione di ricchezza, alternando alla prospettiva storica la focalizzazione delle caratteristiche della globalizzazione 3.0, che possono essere riassunte con il termine servification, cioè la trasformazione delle imprese in una sorta di struttura di servizio, riducendo a fattore marginale la produzione di merci materiali. Joel Mokyr, noto per le sue monografie sul ruolo della conoscenza e degli imprenditori nello sviluppo capitalista, definisce invece la genealogia di Una cultura della crescita (pp. 543, euro 38) attraverso la figura dell’imprenditore culturale, cioè di quei filosofi, economisti, matematici, fisici che hanno contribuito ad imporre come necessario al bene comune il legame tra conoscenza e economia.

È CON L’AFFERMARSI di una società industriale che avviene il primo spacchettamento dei fattori economici di base. Tra la fine dell’Ottocento e i primi venti anni del Novecento produzione e consumo diventano infatti fattori distinti. È merito di Henry Ford, sostiene Baldwin, aver intuito che l’organizzazione del lavoro doveva essere progettata per produrre in serie la stessa merce, riducendo così i costi di produzione. Il consumo poteva così essere differito nel tempo e nello spazio. Si producevano cioè merci che non erano vendute solo nei luoghi adiacenti alla manifattura o alle coltivazioni.

Il secondo spacchettamento dei fattori economici coincide con la globalizzazione 2.0, cresciuta tra gli inizi degli anni Ottanta del Novecento e il 2008. Sono stati i decenni del decentramento produttivo, della frammentazione delle imprese (il downsizing), mentre Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e Wto definivano l’agenda politica mondiale. Il terzo spacchettamento è quello invece in corso, caratterizzato dalla servification dell’economia capitalistica.

Il volume di Joel Mokyr offre invece una ricostruzione storica della figura dell’imprenditore culturale.

GLI IMPRENDITORI CULTURALI sono filosofi, scienziati o sociologi che hanno favorito una diffusione della conoscenza in base alla logica comunicativa dell’«uno ai molti», favorendo così la costituzione di comunità intellettuali (le comunità dei sapienti) che sono intervenute per superare i vincoli imposti dalla frammentazione politica, il particolarismo localistico e per rompere le anguste barriera della «repubblica delle lettere». Hanno cioè le capacità di ricombinare in maniera innovativa saperi e conoscenze già note. Più che un sovversivo, l’imprenditore culturale ha dunque la capacità di attivare un circolo virtuoso tra pragmatismo, rispetto delle convenzioni socialmente necessarie per sviluppare una produzione di valore su basi globali e una attitudine visionaria.

ENTRAMBI GLI AUTORI hanno una visione «occidentale» dello sviluppo economico, nutrendo una fiducia fideistica nelle capacità progressiva e civilizzatrici del capitalismo, mentre l’innovazione è considerata come un fenomeno «naturalistico», anche quando introducono la distinzione tra conoscenza tacita e conoscenza formale – nel libro di Mokyr qualificate come conoscenza prescrittiva e conoscenza proposizionale – per indicare il sapere come un giacimento stratificato di concetti e consuetudini dal quale estrarre la conoscenza necessaria. L’imprenditore culturale «cattura» dunque la conoscenza proposizionale (tacita) e opera affinché diventi prescrittiva (formale), che a sua volta sarà condivisa attraverso l’uso delle tecnologie alle quali darà vita.

Tanto Baldwin che Mokyr propongono una versione naturalistica del «capitalismo estrattivo» in base alla quale l’innovazione sarebbe estratta dalla cooperazione sociale e dalle università così come si estrae il rame, l’oro, il silicio. E riduttiva è anche la lettura che emerge dal libro di Baldwin della servification in corso. Produzione, distribuzione e consumo sono ormai un continuum nel quale alcune attività di servizio sono diventate attività produttive di valore, e dunque anche di profitti.

LA GLOBALIZZAZIONE 3.0 esprime cioè una riconfigurazione proprio dei fattori economici di base, fattori tutti che sono attualmente affrontati attraverso forme autoritarie di governo della società, rimuovendo così il nesso, caro ai liberali, tra democrazia e capitalismo. Questo racconta la cronaca, laddove mette in evidenza che le forme politiche emergenti nella globalizzazione 3.0 sono il populismo o un autoritarismo politico in nome del popolo o di una identità religiosa per salvaguardare la concentrazione del potere in un partito (la Cina, ma anche l’India induista) in maniera tale che l’imprenditore culturale diventi l’agit prop della figura dell’individuo proprietario.

EMERGE così una contraddizione tra la concezione illuminista della conoscenza e le politiche di controllo, di sorveglianza, di «cattura», appunto, che contraddistinguono la globalizzazione 3.0. Ma che gli attuali imprenditori culturali tendono a rimuovere, preferendo indossare gli abiti dei rentier che si appropriano di ciò che è stato prodotto socialmente.