Il governo Draghi non sancisce il fallimento della politica. Che si fa anche quando è affidata ai tecnici: i conflitti tra interessi non si quietano e governo e parlamento assumono decisioni propizie ad alcuni anziché ad altri. La tecnicità delle scelte è solo un espediente che dissimula decisioni politiche scomode. Alto o basso che sia il suo profilo, il governo Draghi testimonia unicamente la difficile condizione in cui versa il regime democratico. Donde l’appello a un commissario estraneo ai partiti.

La difficoltà nasce anzitutto dalla frammentazione della rappresentanza, effetto a sua volta della frammentazione sociale: la società italiana è teatro di una disperata guerra tra bande. Le cui vittime, si sa, sono i ceti deboli, il Mezzogiorno e i territori che non tengono il ritmo delle aree più sviluppate. In tali condizioni, la democrazia non assolve il suo compito fondamentale: i regimi rappresentativi e democratici sono nati per conciliare pacificamente i conflitti convertendoli tramite le elezioni in pluralismo politico.

A questo scopo, le tecniche di conciliazione di cui si avvalgono tali regimi variano nel tempo, in ragione di più fattori: dal cambiamento sociale alle manovre di coloro che contano di avvantaggiarsi di altre tecniche. Il ricorso a una formula di governo anomala come il governo Draghi conferma l’inadeguatezza della tecnica d’espressione e mediazione dei conflitti attualmente in vigore in Italia, la quale risale al tempo in cui, all’insegna della governabilità, si pretese di semplificare la rappresentanza comprimendola artificiosamente in due schieramenti contrapposti e spostando il baricentro del potere dal parlamento all’esecutivo e al suo leader. È stato un fallimento: due accozzaglie di fazioni in guerra tra loro ipotecano il governo del paese, che è in stallo da più o meno tre decenni.

Sbagliato però il racconto degli italiani più disgraziati d’ogni altro. Il malfunzionamento del bipolarismo è un problema diffuso. Governare è un modo per condurre il conflitto in virtù del quale le elezioni consegnano provvisoriamente a una parte le risorse concentrate nello Stato, contando che non ne abusi. Ebbene, l’abuso è divenuto la regola nei sistemi duali, oggidì prevalenti. Si prenda la madre dei bipartitismi. Nel Regno Unito l’alternanza conservatori/laburisti ha funzionato finché sono durati la ricostruzione e lo sviluppo.

Da allora la dialettica bipartitica si è avvelenata. I governi Thatcher furono spietati verso i laburisti, i sindacati e l’elettorato popolare, applicando il principio secondo cui “il vincitore prende tutto”. Che sarà, con più cautela, confermato dai laburisti tornati al governo nel 1996. Abbandonando peraltro l’elettorato popolare per rivolgersi ai ceti medi: il contenimento delle politiche di welfare e di tutela del lavoro è stato sostituito dalle politiche dei diritti. Il risultato a lungo andare è stato la “cattura” populista del Partito conservatori, che, aizzando contro gli immigrati gli elettori più colpiti dalle ristrutturazioni industriali, ha conseguito il brillante successo del Brexit.

Negli ultimi decenni il principio del vincitore che prende tutto ha fatto scuola, avvelenando le relazioni tra le forze politiche nei sistemi duali. In essi, mentre i partiti di sinistra fanno del fair play un elemento della loro offerta politica all’elettorato moderato, i partiti di destra si mostrano molto aggressivi quando sono al governo e irresponsabili quando all’opposizione. La contesa politica si è comunque esasperata e intossica la pubblica opinione. Il problema è serissimo, visto che ai conflitti socioeconomici, si sono aggiunti quelli culturali e territoriali e i sistemi duali faticano a trattarli: innumerevoli segni indicano allora come la divisione della società in campi politicamente ostili sia un lusso (o un vizio) che i regimi democratici non possono più concedersi. I vecchi partiti incespicano e si dividono, gli elettori sono capricciosi, i populisti impazzano. Nel 2017 la maggioranza (molto relativa) dei francesi ha scelto essa stessa un commissario, eleggendo alla presidenza un tecnocrate privo di affiliazioni politiche.

A ben vedere, le difficoltà non risparmiano nessuno. Nemmeno la Germania, che non disdegna le grandi coalizioni e forse per questo se la passa un po’ meglio. Ma la ricerca di nuove tecniche è in corso. In Islanda e Irlanda due riuscite sperimentazioni deliberative hanno riscritto e adeguato i testi costituzionali. Non fosse che la deliberazione pretende discussioni prolungate e anche monotematiche, inadatte alla politica di tutti i giorni. In Francia, dove la “monarchia repubblicana” ha condotto alla rivolta dei gilets jaunes, domata solo dal virus, si propone da anni la “riparlamentarizzazione” del regime rappresentativo.

Si discute, ovviamente, anche in Italia. Dove però servirebbe un po’ più di fantasia dell’ennesima proposta di riforma elettorale e di abolizione del bicameralismo, con la sciocca suggestione del governo che governa e dell’opposizione che controlla. In Svizzera l’esecutivo (di 8 membri) include tutti i partiti, in ragione del loro seguito elettorale. Senza ridurre la competizione elettorale e nemmeno quella in parlamento, tutti i partiti condividono la responsabilità del governo. La Svizzera è un piccolo paese. Ma una soluzione di questo genere potrebbe forse instaurare una dialettica diversa tra parlamento e esecutivo e tra le forze politiche: inducendo alcune a comportamenti più civili e responsabili e altre a non lasciare senza rappresentanza larghi segmenti di società.

Qualcosa ad ogni buon conto occorrerà inventarsela: questo strambo governo Draghi potrebbe essere l’occasione per riflettere. Stiamo attenti: anche in paesi d’illustre tradizione democratica già si avvertono preoccupanti segni di regressione: leggi intese a impedire la protesta sono in via di adozione tanto in Francia, quanto in Gran Bretagna.