Se non fosse per il ministro Franceschini, che tira su l’umore con le sue continue scoperte ed invenzioni ed agnizioni (l’ultima è la proposta di aprire alla moda i luoghi della cultura, idea non proprio nuovissima), la scena italiana non ha nessuna positiva previsione per l’anno appena iniziato. Le attribuzioni dei contributi ministeriali hanno suscitato infiniti ricorsi, proteste e sconforto. Tutto sembra tornare, per ora, come prima peggio di prima, nonostante il tocco e le prediche di «modernità» che la riforma dello spettacolo prometteva di portare. Il malessere nel settore è molto cresciuto: nessuno riesce a spiegare come chi ha ampliato i propri programmi e il respiro del proprio lavoro, si sia visto decurtati i contributi, che sono invece cresciuti per situazioni poco chiare o asserragliate dentro la burocrazia numerica dei dati presentati. Elio De Capitani del Teatro dell’Elfo (uno degli enti che hanno presentato ricorso contro i provvedimenti ministeriali) è divenuto, per storia ed autorevolezza, il grande accusatore di un progetto governativo dalle enormi ambizioni e dai risultati quanto meno fasulli. Ma resta uno dei pochi che metta la faccia su questa sacrosanta protesta. Oggi l’Italia conta ben sette teatri nazionali, di cui solo meno della metà si avvicinano al senso della parola. Mentre parole come spartizione, lottizzazione e arbitrio potrebbero tranquillamente essere l’interfaccia delle decisioni prese, risultati alla mano. La situazione confusa (o quanto meno sgrammaticata) del resto coinvolge, al di là delle regole, molte istituzioni della scena culturale.

La Biennale di Venezia, per necessità tecniche oggettive di programmazione, si è comunque «autoprorogata» per un anno, nel bene e nel male. A Milano il passaggio al «dopo Ronconi» (senza le garanzie che il suo nome ispirava) pare quanto meno ondivago per una megastruttura di quel genere, che pure ha al suo interno fior di professionisti. E la scomparsa di un altro Luca, De Filippo, apre problemi rilevanti per il grande patrimonio di tradizione, legata al padre Eduardo, che l’artista deteneva e coordinava.

Al Petruzzelli di Bari la tanto desiderata «normalizzazione a km 0», arriva a far scambiare misere mazzette sotto l’occhio delle telecamere della polizia. In Campania il governatore più discusso d’Italia nomina un nuovo segretario generale a Ravello per gestire il «dopo Brunetta» (che secondo Franceschini faceva il miglior festival d’Italia…). È Renato Quaglia, defenestrato a suo tempo dal Napoli teatro festival per piazzare l’onnivoro Luca De Fusco. E con lui arrivano due ottimi direttori artistici (Alessio Vlad e Laura Valente). Peccato solo che si occupino entrambi della stessa disciplina. A Firenze il megaente della Pergola, nonostante i crismi renziani che possono averlo favorito, deve fare i conti con una produzione (il Galileo di Lavia) che da solo ha assorbito una quantità sconsiderata di euro (le voci si avvicinano a un milione, ma non può essere vero).

A Roma lo sfratto notarile alla giunta Marino ha lasciato orfani progetti, anche di antico lignaggio, e le associazioni culturali che li gestivano: i relativi bandi pubblici, nella fretta della fuga, non sono stati mai neppure emanati (e trascurando qui il discutibile strumento del bando idoleggiato a sinistra, e l’esperienza dei giurati che ne decide poi le graduatorie). Chi può si ricicla in fretta, rimangono solide solo le fazioni interne al Pd romano. Con qualche pericolo di strafare, sia per compagnie discutibili che si allargano senza limite in spazi pubblici, sia per chi pecca di eccessivo ottimismo su se stesso.

Il più chiacchierato è in questo senso il direttore del Teatro di Roma Antonio Calbi. Al di là dei suoi meriti e del suo valore (una crescita esponenziale di «alzate di sipario» in effetti l’ha portata, ma non sempre congrue ai fini istituzionali di un teatro pubblico), ha voluto partecipare pochi mesi fa al concorso per la direzione dei musei di Siena. E l’ha vinto! Senza porre in discussione una cultura da Pico della Mirandola, preoccupa il fatto che abbia dichiarato di voler mantenere entrambe le cariche. Che non sono medaglie da appuntare sul petto, ma lavori impegnativi, si spera, da non poter svolgere a mezzo tempo. Già, ma è proprio la concezione del «lavoro» teatrale, delle necessarie fatica ed esperienza che da sempre l’hanno contraddistinto, su cui rischia in queste stagioni confuse, di cadere pesantemente il sipario dell’oblio e dell’interesse. E soprattutto quello della noia.