Adocchiato da un talent scout come Angelo Capodicasa – più volte parlamentare del Pd e nel 2000 primo presidente post comunista della Regione siciliana – Marco Zambuto si ritrovò a fare il sindaco di Agrigento a 34 anni, nel 2007, un tempo in cui non era ancora di moda il giovanilismo in politica. Due anni fa, dopo una sindacatura vissuta invano (su Wikipedia si legge che il sindaco abbia «passivamente assistito al crollo di alcuni palazzi» nella sua città) gli agrigentini placidamente lo rielessero e oggi, altrettanto placidamente, assistono alle sue dimissioni, seguite a una condanna a due mesi e venti giorni per abuso d’ufficio.

Ad Agrigento, in genere, le promesse abbondano e i risultati scarseggiano, per cui l’obiettivo che il dimissionario Zambuto si è dato, e cioè continuare a occuparsi più di prima della sua città, potrebbe probabilisticamente non avverarsi. Il fatto è che per il sindaco renziano, la richiesta a non mollare arriva dai vertici siciliani del partito, che di recente lo hanno candidato alle elezioni europee con scarsa fortuna, dopo che il renziano di Sicilia Davide Faraone riteneva imprescindibile la sua presenza in lista.

Tra i fan di Zambuto c’è anche il segretario regionale (cuperliano) Fausto Raciti, che nell’elogiarne lo stile gli attribuisce «grande serietà. La decisione di dimettersi lo rende ancora più credibile agli occhi del Pd e dei siciliani». Ma se il sindaco non si fosse dimesso, il prefetto lo avrebbe comunque sospeso dall’incarico, come prevede la legge Severino. Zambuto è stato condannato perché, nella qualità di presidente della fondazione Pirandello, aveva comprato per seimila euro, con i soldi dell’ente, due pagine pubblicitarie su un quotidiano, proprio durante la campagna elettorale per le amministrative. Pagine, secondo il gup, molto attente alla celebrazione delle gesta di Zambuto e molto poco pertinenti con l’attività della fondazione.

Eletto presidente dell’assemblea siciliana del Pd all’ultimo congresso, sempre con il sostegno di Faraone, Zambuto di strada ne ha fatta: figlio di un ex sindaco Dc e genero di Angelo La Russa, parlamentare per un ventennio e plenipotenziario dello scudocrociato agrigentino negli anni ruggenti della Balena bianca; è entrato per la prima volta in Consiglio comunale a 20 anni, naturalmente con la Dc; poi è passato al Cdu, all’Udc (con il partito di Casini divenne sindaco nel 2007, sostenuto anche dai Ds dell’agrigentino Capodicasa e dall’Udeur), a Forza Italia, al Pdl, ancora all’Udc e, un anno fa, al Pd, area Renzi.

Alto, elegante, nordeuropeo nell’aspetto (un Gran normanno avrebbe detto Vittorini), del meridionale ha le movenze lente e il gusto peripatetico di amministrare passeggiando: lo si incontra per la città, in compagnia dei suoi collaboratori, mentre con aria ispirata parla e mira la Valle, dove ogni anno si fa vedere per la festa del mandorlo in fiore; tranne quest’anno, perché la kermesse è stata rimandata per mancanza di soldi. Un intoppo che il sindaco ha dimenticato di comunicare agli ospiti abituali, che si sono ritrovati ad Agrigento (interi gruppi folcloristici arrivati da più continenti) a bivaccare per strada, senza un pasto né un albergo.

Dopo la condanna Zambuto rivendica la correttezza del suo operato e la sua difesa chiama in causa l’aritmetica: «Sono stato condannato solo per un capo d’imputazione sui quattro che mi sono stati contestati»; il caso: «Sono stato avvicinato, davanti alla porta del municipio da un agente pubblicitario, nient’altro. Neanche un euro è uscito dalle casse del Comune», infatti ha pagato la fondazione Pirandello; l’inconsapevolezza: «Ho amato e servito Agrigento».