Caccia grossa. Difficile definire diversamente cosa stia succedendo a Roma, a colpi di sgomberi, chiusure, sequestri, denunce, sigilli. Una dopo l’altra, stanno spegnendo le più vitali e interessanti esperienze culturali indipendenti. Martedì scorso hanno chiuso anche il Rialto Sant’Ambrogio. E siamo a cinque: dopo l’Angelo Mai, il Cinema Volturno, il Teatro Valle e il Cinema America. Impallinati e abbattuti. Disperante.
E così, a neanche due anni dall’insediamento della sua giunta, il sindaco Marino può serenamente vantarsi di aver deprivato la città delle sue migliori realtà artistiche e culturali. Un risultato agghiacciante, per chi avrebbe dovuto risollevare il tono e il prestigio di Roma all’indomani dell’infelice stagione del sindaco Alemanno, con le sue maschere di Carnevale e le sfilate dei centurioni.

Il Rialto Sant’Ambrogio era un centro culturale di proprietà comunale, al piano terra di un magnifico complesso architettonico del Seicento. Tra il Portico d’Ottavia e la Fontana delle Tartarughe, alle spalle dell’antico ghetto ebraico. Ospitava un vivacissimo Circolo dell’Arci e l’omonima associazione, nata molti anni fa con l’occupazione di un cinema abbandonato (il Rialto, appunto). Era uno splendido cantiere delle più varie creatività, un laboratorio espressivo. Si faceva teatro, musica, arte, si ospitavano spettacoli ed eventi sempre molto seguiti, anche di caratura internazionale. Le sue attività erano peraltro autorizzate, in base a un’assegnazione che avrebbe dovuto essere semplicemente completata o perfezionata o anche trasferita. E invece, niente: prima l’invito a sgomberare, poi lo sgombero vero e proprio, con la polizia, l’ufficiale giudiziario e tutto lo squallido apparato muscolare.

Al di là delle specifiche condizioni, delle diverse dinamiche con cui la mattanza dei centri culturali si sta perpetrando, quel che impressiona è l’inesorabile sistematicità della sequenza. Sia intervenendo direttamente, o solo astenendosi, o anche lasciando che altri agiscano, il Comune si sta rendendo responsabile dell’eliminazione delle sue stesse risorse creative. In altre parole, dell’unica possibilità che a Roma si possa sviluppare una produzione culturale contemporanea, che ci siano luoghi dove sperimentare nuove espressività o coltivare talenti, o anche soltanto offrire alla città qualcosa di diverso dal solito, ingiallito catalogo repertoriale.
La parabola degli artisti del Valle è esemplare: costretti a lasciare il teatro, che ovviamente è ancora lì, vuoto e desolato, e praticamente obbligati ad accettare qualche spicciolo di programmazione autonoma, ma rigorosamente nell’ambito dei Cartelloni istituzionali, da allestire forse qua o forse no o chissà dove. Una preziosissima esperienza culturale, riconosciuta a livello internazionale, elogiata e apprezzata per la sua ricerca sui modelli di teatro partecipato, completamente neutralizzata e dispersa. Ma lo stesso si potrebbe dire dell’America, con la sua tenace difesa del cinema sociale; o dell’Angelo Mai, una vera e propria fabbrica teatrale e musicale. Eppure, queste esperienze stanno lì a languire, rischiando di polverizzarsi e ulteriormente impoverire il panorama culturale cittadino (e nazionale).

Ma perché tanto furore contro questo tipo di esperienze? Perché autogestite e indipendenti, e dunque incontrollabili, non allineate, quasi sempre critiche e antagoniste, politicamente ruvide? Perché concorrenziali con l’offerta culturale istituzionale e dunque invise a direttori artistici e consigli d’amministrazione, assessori e consiglieri, notabili e mandarini? O perché, chi più chi meno, irregolari e sgrammaticate, a volte esito di occupazioni e dunque spesso «illegali»?

Forse è l’insieme di tutto ciò che anima questa politica persecutoria e repressiva. Il combinato disposto tra impulsi normalizzatrici e istinti legalitari, tra conformismo culturale e riflussi reazionari, accompagnato spesso da quell’inconfessabile deriva rassegnata e opportunista che frena la collera e spinge alla rinuncia. Ma il risultato è che Roma è ormai un obitorio culturale.
Pensare che a Berlino la Municipalità ha costituito un apposito dipartimento che accoglie e valorizza le progettazioni indipendenti, o che a Barcellona o a Parigi le esperienze autogestite vengono direttamente finanziate. E non casualmente queste città sono considerate le più vivaci e insieme prestigiose d’Europa, le più frequentate dal turismo: perché intelligentemente investono sull’offerta culturale per produrre economia e favorire la coesione sociale.

Qui da noi, al contrario, si fa di tutto per liquidare quel che finora aveva connotato positivamente la città, chi era riuscito a coinvolgerla, ad appassionarla, a scuoterla. Se la stanno prendendo perfino con le biblioteche di quartiere, chiudendo e licenziando, riducendo gli stipendi e smorzando le attività. E le stesse istituzioni culturali cittadine vivacchiano a stento, senza slanci, senza entusiasmi, anzi spesso attanagliate da crisi di gestione che ne svelano le mediocrità. Per non parlare di Musei, siti archeologici, beni culturali vari: tutti alla canna del gas, preoccupati soltanto di sopravvivere a se stessi, incapaci e/o impossibilitati a promuovere alcunché.
Diciamocelo. Nella città con il patrimonio culturale più rilevante, con la creatività più spiccata, con una naturale predisposizione alla produzione artistica, con un fascino paesaggistico che non ha eguali (infatti ci assegnano anche gli Oscar), ebbene, proprio in questa città non esiste alcuna politica culturale. O meglio, chi si occupa di cultura sono i contabili del Campidoglio e i commissari di polizia.
A Roma tutti aspettavano i terroristi libici e invece sono arrivati gli sfasciacarrozze olandesi. Anche 007 ha sbattuto la testa correndo in auto sulle buche che imperversano sulle strade cittadine. E come se non bastasse sabato arriverà pure Matteo Salvini ad abbaiare in piazza del Popolo.

Però, in compenso, tutto contento, il sindaco Marino ci ha generosamente promesso che faremo le Olimpiadi.