La democrazia è un mito o è una realtà? Se finora è stata solo un mito, possono comunque darsi le condizioni per una sua realizzazione? E se invece è anche una realtà, quale rapporto esiste tra l’idea regolativa della sovranità popolare come forma di autogoverno e la sua realizzazione concreta? A queste e altre domande sulla storia e sulla teoria della democrazia cerca di rispondere il volume Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà di Massimo L. Salvadori (Donzelli, pp. 507, euro 35).

Oggi è difficile individuare un concetto che goda di maggiore fortuna rispetto a quello di democrazia, diventato un ingrediente irrinunciabile per l’autodefinizione di qualsiasi movimento, tanto che nessun attore sulla scena politica può definirsi antidemocratico, pena la sua immediata cancellazione dal dibattito pubblico: «democrazia» non indica più solo una forma di governo o un insieme di regole procedurali e istituzionali, ma l’intero orizzonte assiomatico dei paesi occidentali.

I nodi del problema

Questa fortuna dell’idea di democrazia non è però priva di ambiguità, tanto da condurre a un suo uso ideologico e strumentale, attraverso cui essa viene trasformata in un passepartout utile a giustificare qualsiasi opzione politica. Proprio per fare chiarezza sulle ambiguità del principio democratico il volume di Salvadori fornisce strumenti di comprensione concettuale e presenta una prospettiva critica – sia storica che teorica – sull’idea di democrazia.

Sul piano storico il volume ricostruisce il lungo viaggio della democrazia dalla Grecia classica a oggi, passando per le teorie liberali e le filosofie illuministiche (Spinoza, Locke, Montesquieu, Rousseau), le rivoluzioni americana e francese, il marxismo, il pensiero repubblicano (Mazzini), le lotte per il suffragio universale, la competizione tra i partiti per giungere al governo (Kautsky, Weber, Kelsen, Schumpeter) e l’affermazione dello Stato sociale.

Il volume costituisce pertanto un compendio enciclopedico delle varie posizioni che sulla democrazia si sono venute consolidando in Occidente lungo venticinque secoli di storia. Ma l’aspirazione dell’autore non è puramente erudita o antiquaria. Sul piano teorico Salvadori analizza infatti numerose questioni connesse all’idea di democrazia (volontà popolare, costituzione, rappresentanza, diritti, partiti), alla luce di una piena consapevolezza delle patologie delle democrazie contemporanee.

L’ideologia del potere

Guardare alla sostanza dell’attuale democrazia liberale rappresentativa significa rendersi amaramente conto che essa è altra cosa rispetto al potere sovrano del popolo. Per certi aspetti, significa rendersi conto che la democrazia non ha trovato applicazione perché non può trovarla: «Nessuno meglio di Kelsen ha chiarito che la democrazia in senso proprio può essere ed è stata soltanto quella diretta degli antichi, ma quest’ultima è incompatibile e inapplicabile nelle società complesse. L’unica forma realizzabile di democrazia è la rappresentativa, ma tale forma comporta di necessità il trasferimento della sovranità dal popolo ai suoi rappresentanti, titolari della facoltà di elaborare e approvare le leggi, e quindi una sostanziale limitazione e mutazione della natura della democrazia stessa». Il sistema rappresentativo moderno lascia dunque al popolo una quota di potere che nulla a che fare con l’ideale della piena sovranità popolare.

Naturalmente Salvadori non nega l’importanza dei movimenti di emancipazione che, soprattutto nel XIX e XX secolo, hanno realizzato migliori condizioni di vita per le classi popolari. Al contrario, l’autore sottolinea come la giustificazione (e la sopravvivenza) dell’idea di democrazia sia interamente dovuta al successo di queste lotte per i diritti civili e per le riforme sociali. Ma tutto ciò non deve impedire di vedere che il principio della sovranità popolare non ha mai avuto un pieno riscontro effettivo nell’esercizio concreto del potere. Esso è stato affermato solo astrattamente e utilizzato come ideologia di legittimazione del potere, perché al popolo è stata lasciata l’illusione della sovranità (per esempio, grazie all’esercizio del voto nelle competizioni elettorali): la natura dei sistemi democratici è dunque riducibile alla combinazione delle istituzioni liberali con il suffragio universale.

La democrazia moderna si colloca così a metà strada tra il mito e la realtà: se intesa come aspirazione all’autogoverno, essa è un mito; se intesa come strumento per l’emancipazione civile e sociale delle classi popolari, essa ha raggiunto alcuni importanti obiettivi (sistema pensionistico, scolastico, sanitario ecc.) probabilmente impensabili in altre forme di governo.

Oggi però, sotto la spinta delle teorie neoliberali, anche questa interpretazione realistica della democrazia moderna sembra diventare utopistica, a causa dell’arretramento delle politiche sociali che comprime l’unico spazio di sovranità popolare davvero realizzato tra Ottocento e Novecento, quello del welfare state. Stiamo così assistendo a un progressivo scivolamento in forme di plutocrazia demagogica che, imponendo il dominio del «mercato», hanno ricreato rigide diseguaglianze sociali di «ceto» attraverso l’uso ideologico del lessico delle libertà, ma di fatto svuotando l’idea stessa di democrazia, ridotta a esistere solo nelle cabine elettorali.

Derive paternaliste

Questa deriva reazionaria della democrazia è oggi evidente proprio negli esiti patologici del consenso populistico-plebiscitario che innerva il dispotismo «morbido» tipico delle post-democrazie contemporanee, esito del declino della rappresentanza e della supremazia di oligarchie cosmopolitiche che si formano in modo non trasparente all’incrocio tra politica, economia e comunicazione. L’attuale crisi della democrazia riposa infatti su una crisi sociale e culturale che ha visto in Occidente la frantumazione delle identità collettive e l’affermazione di forme di passività che hanno tolto significato a parole quali partecipazione e autogoverno. Frenare questa deriva paternalistica della democrazia, segnalata già da Tocqueville, non è certo facile, secondo Salvadori, ma richiede almeno una consapevolezza: «Guardando allo stato delle cose non resta se non concludere che il demos ha perso la partita nei confronti delle oligarchie . Se la democrazia possa o meno riconquistarsi un avvenire, sia pure nei limiti intrinseci alla democrazia liberale, ciò dipenderà dalla capacità o meno del demos oggi umiliato e offeso di dotarsi del necessario vigore e dalla sua capacità di iniziativa per incidere con autentica efficacia sui centri non già formali ma sostanziali del potere». Il destino della democrazia, come sempre, è nelle nostre mani.