Fra tutte le piante della farmacopea antica, il silfio, detto anche opos kyrenaikos, occupava un ruolo di assoluto rilievo. Come ci riferisce Teofrasto, il suo succo resinoso, assai costoso e pregiato, era prescritto per la cura di un’innumerevole quantità di affezioni, dalla gotta, ai dolori articolari, alla sciatica, all’angina, all’epilessia, al tetano, fino all’impotenza maschile. Era considerato anche un antidoto ai veleni di numerosi animali, una terapia contro le verruche e per la cataratta; di esso si apprezzava il suo potere di favorire la sudorazione, gli si attribuivano proprietà come regolatore del flusso mestruale e, associato all’apopanax, come contraccettivo.
Non era inoltre trascurabile fino all’epoca romana – quando iniziò la sua rarefazione – l’uso delle sue radici fresche, condite con l’aceto, o anche bollite o grigliate, ai fini alimentari, oppure dopo tostatura per ottenerne una polvere da utilizzare come spezia.
Il suo areale di distribuzione era localizzato all’intorno dell’attuale Bengasi nella Libia, fra il golfo della Sirte e il suo entroterra, dove cresceva in particolare negli habitat steppici dell’altopiano. Come sappiamo da Erodoto, il suo principale centro commerciale era Cirene, che ne deteneva una sorta di monopolio.
Il suo uso e sfruttamento doveva essere stato intensissimo se pochi secoli dopo Plinio il Vecchio, pur ricordandone l’impiego ai tempi di Cesare, ne attesta poi la sua praticamente totale estinzione dalla Cirenaica, ricordandoci che con grande fatica era stato trovato un solo esemplare, che era stato inviato all’imperatore Nerone.
Ma di quale pianta si trattava? Ne conserviamo oggi solo il nome antico e alcune sue rappresentazioni nelle monete antiche del VI-IV sec. a.C. di Cirene. Questo ci permette di identificarla come una Ferulacea, affine all’attuale Ferula communis, della famiglia delle Umbellifere, e da esse ne possiamo rilevare il maestoso portamento colonnare, caratterizzato da un grande fusto scanalato, con ampie ombrelle fiorite, da cui maturavano tipici mericarpi (frutti secchi indeiscenti) con foglie guainanti che terminavano con partiture pennate.
Da ricordare che alla famiglia delle Umbelliferae (oggi denominate più propriamente Apiaceae), appartengono numerose piante medicinali e alimentari (quali il coriandolo, il sedano, il prezzemolo, il finocchio, il laserpizio, o anche lo smirnio) o anche velenose (quali, ad esempio, la cicuta). Le sue proprietà farmacologiche erano da ascrivere agli alcaloidi presenti nei dotti secretori distribuiti nei numerosi dotti (chiamati vitte) che caratterizzano, sia pur con differenze significative dal punto di vista dei principi attivi, le differenti specie.
Diverse sono le analogie morfologiche che possono essere rilevate con diverse specie affini, e va ricordata la proposta di una sua identificazione con il Laserpitium siler, ovvero con il laserpizio dei Romani, che però sembra assai poco probabile per morfologia ed habitat.
Del tutto fantasiosa è invece la proposta di una sua identificazione con una palma (la Lodoicea sechellarum), che tanta curiosità ha destato fin dalla sua assai più tardiva scoperta, probabilmente per certa omologia morfologia dei suoi frutti con quelli di questa palma, sia pure su una scala enormemente più piccola (ma d’altronde la scala di un dettaglio su una moneta non è interpretabile se non vi sono elementi al contorno).
Altre ipotesi formulate l’hanno identificata come una Thapsia (affine alla T. garganica), o anche come la Cachrys ferulacea, ma per motivazioni diverse esse sono risultate poco probabili.
In definitiva, l’ipotesi più plausibile è si trattasse di una Ferula, pianta nota come sacra nell’antichità, se si pensa che nella mitologia greca questa era la pianta con cui Prometeo aveva sottratto il fuoco agli dei.
Nel tentativo di restringere il campo fra le possibili diverse specie del genere, si è pensato che si trattasse di F. assa-foetida L., ma ciò è risultato improbabile, dato l’areale molto più orientale della specie (gli storici raccontano infatti che Alessandro Magno abbia incontrato questa pianta solo alle soglie dell’attuale Afghanistan). L’ipotesi che si trattasse invece della F. tingitana L., tipica dell’area di una vasta area che da Tangeri si estende in tutta la Cirenaica fino alle isole greche di Rodi e Chio e alle coste del Libano e della Palestina, non sembrano plausibili, sia sotto il profilo delle proprietà farmacologiche, che dal punto di vista dell’habitat.
Il dubbio sulla vera identità della specie rimane parzialmente irrisolto e, d’altronde, non può essere diversamente dal momento che si tratta di una specie oggi da considerare del tutto estinta e di cui non sono rimaste tracce se non in scritti e descrizioni.
La dobbiamo quindi inserire nel novero delle piante di cui l’uomo ha determinato la scomparsa, sia per il profitto derivato dal suo commercio, o forse anche per l’eccessivo carico di bestiame su di essa esercitato nelle aree steppiche dove cresceva spontanea, non essendo consapevole della necessità primaria di una salvaguardia delle risorse genetiche naturali.