Parigi il sabato mattina muove i suoi passi con lentezza, senza far rumore. Siamo andati a dormire con il suono delle sirene, degli elicotteri che sorvolavano vari quartieri. È arrivato sabato mattina e quel silenzio, che abitualmente percorre le vie dopo una settimana di lavoro, aveva il carattere di un frastuono.

Lo stato di emergenza nazionale decretato dal Presidente François Hollande ha imposto la chiusura di tutti i luoghi pubblici del Comune di Parigi: scuole, teatri, piscine, mercati. Il monito della prefettura è di non uscire dalle proprie abitazioni, se non per necessità.

La quotidianità non sembra però essersi fermata tra bisogni materiali e di comunità: la lavanderia sotto casa, la boulangerie, il tabacchi, il bar di sempre sono aperti. Ritrovare anche stamattina quelle facce, quei saluti, non scivola addosso come gli altri giorni, rende un senso di calore, di comunità. Una coppia sta partendo per il Messico per festeggiare il compleanno della figlia che vive lì, aspetta il taxi per l’aeroporto, “Non bisogna perdere la speranza, questa è la nostra lotta contro il terrore”.

Giù fino al boulevard Barbès, quartiere meticcio, che separa Montmartre dalla Goutte d’Or, da molti vista come la banlieue del centro parigino. Su questa stessa piazza due anni fa gli scontri violenti durante una manifestazione non autorizzata contro gli attacchi di Israele in Palestina; due settimane fa migliaia di persone hanno sfilato durante la Marche pour la Dignité, contro ogni discriminazione razziale. All’ora di pranzo non c’è molta gente.

Il mercato è aperto tra i banchi che sporgono dai negozi sulla strada e gli ambulanti. Se c’è qualcuno che manca è la polizia, perennemente in presidio da queste parti. “È un orrore”, ripetono due donne di origine magrebina con le loro buste della spesa, mentre poco più avanti due ragazzi si chiedono perché ci siano giornalisti proprio lì, osservando da qualche metro di distanza una troupe che prova a fare delle interviste ai passanti.

Un seul mort c’est déjà trop, n’est pas? – Anche un solo morto non è già abbastanza? E’ una follia, tutta una follia!, dice un bambino mentre accanto a me compra un giornalino. Con le sue parole, semplici e così esaustive percorro le vie su per il Sacro Cuore, che oggi non è gremito di turisti, c’è poca gente e molto silenzio. Su rue des Abbesses, tra il Sacro Cuore e Pigalle, zona mondana, ancora nel XIIIème, bourgeois-bohèmienne (bobo), non meticcia, l’assenza di movimento si fa più assordante.

Qui ogni sera centinaia di persone, molti giovani si riuniscono nei dehors (les terrasses) dei bar, anche d’inverno. La scenografia è quella dell’XIème e del Xème arrondissement dove invece sono avvenuti realmente gli attacchi. Il cinema Studio28, piccola sala in cui ancora si respira l’atmosfera del cinema d’essai, è aperto, contrariamente a molte altre altre sale: le tre maggiori sigle di multisala in Francia, come molti altri cinema storici, tra cui il Cinéma des Cinéastes di Place de Clichy, hanno deciso di rimanere chiusi oggi. “Rimanere a casa? È quel che vogliono, creare paura, il timore di stare con gli altri” dice un turista spagnolo, di passaggio a Parigi per un week-end con i suoi amici, come molti anche loro emigrati qui per studiare.

Tutto attorno alle vie degli attentati, a pochi chilometri da qui, si esprimono il cordoglio e la solidarietà, un pianista ha improvvisato Imagine davanti al Bataclan, lì vicino fin dal mattino molte persone sono in fila per donare il sangue a chi è rimasto ferito, a chi è in gravi condizioni. Una risposta solidale verso chiunque in questo momento ne avesse bisogno.

Al riparo da un po’ di pioggia che comincia a cadere in questa giornata grigia e triste, la cameriera sulla porta del locale, col volto teso, fissa dritta davanti a sé, “dei nostri colleghi hanno rischiato la vita. Stavano lavorando, come me. Non farà bene alla Francia, porterà solo voti al Front National, per questo bisogna avere più coraggio di loro e rifiutare la violenza delle parole, delle armi ”. Non mancano invece reazioni dure, qualcosa bisogna fare per fermarli, “la guerra è guerra”.

Così si accende un dibattito tra chi sostiene la necessità per l’Europa di agire unita con la forza e la sua interlocutrice che ribalta il discorso, chiedendo reazioni decise contro chi come in Turchia quotidianamente attacca la resistenza curda. Già i curdi e la loro lotta che spesso dimentichiamo quanto ci appartenga.

Tornando verso casa, sapendola vuota, mi fermo al bistrot di sempre. Il proprietario chiedendomi come sto, mi saluta con il suo enorme sorriso. Apro le mail, che nel frattempo, insolitamente per un sabato mattina, arrivano incessanti. Sono i colleghi, gli amici, i professori del dipartimento che ci chiedono se siamo “salvi”. Siamo tutti salvi. Ancora una volta fortunati, viene quasi da pensare.

Noi emigrati a Parigi per scelta, non per necessità. Lunedì, le scuole e le università saranno riaperte, saranno soppressi tutti gli eventi pubblici tranne lezioni ed esami.  I dispositivi di sicurezza attivati su massima allerta, come già in essere, del resto, dopo l’attacco di gennaio scorso contro la redazione di Charlie Hebdo. Questa volta però, nessun estraneo potrà entrare negli edifici, il cui accesso è vincolato dal badge. Porte non più #ouvertes.

La giornata di oggi è negli occhi di quel bambino, è tutto un grande orrore.