Lo sgarro alla par condicio da parte di Renzi, presentatosi qualche giorno fa, in periodo preelettorale (il 5 giugno ci sono le amministrative) a Che tempo che fa, (quinta domenica in due mesi: eravamo stati facili profeti), non è nuovo. L’anno scorso sempre nello stesso periodo, prima delle regionali, occupava gli spazi della tv in barba alla normativa vigente, suscitando l’intervento dell’Agcom. Il lupo perde il pelo ma non il vizio, evidentemente.

Non è che ce l’abbiamo solo con il presidente del Consiglio, però, che pure in fatto di rispetto delle regole dovrebbe essere il primo a dare l’esempio. Ci sono, ahimè, i silenzi dell’organismo di garanzia e quelli del presidente della commissione di vigilanza, Roberto Fico. Questi ultimi forse sono i più pesanti, considerata l’occhiuta presenza esercitata dai suoi predecessori, di destra e di sinistra, da Zavoli, a Petruccioli, da Landolfi a Storace.

Sergio Zavoli bloccò una comparsata di Mario Monti a L’Arena ai primi di gennaio del 2013, Claudio Petruccioli alzò la voce verso Silvio Berlusconi che violava la par condicio prima delle europee del 2004, Francesco Storace e Mario Landolfi, non sempre a ragione, sollevavano allarmi ogni qualvolta pensavano che la Rai si fosse macchiata di leso pluralismo a favore del centrosinistra.

Roberto Fico sul tema è purtroppo assente da due anni. L’ultima sua seria e autorevole presa di posizione risale all’aprile 2014, quando si ventilò l’ipotesi della partecipazione del neopremier Renzi alla «Partita del cuore», in piena campagna per le europee. Partecipazione che poi saltò. Ancora prima i Cinquestelle, con Fico e Grillo in testa, avevano fatto irruzione nella sede della Rai, alla fine del 2013, al grido di fuori i partiti dall’azienda pubblica: un blitz tanto inquietante quanto inefficace, non seguito da nessuna azione politica degna di rilievo da parte della maggiore forza di opposizione. Eppure appena eletto il grillino Fico aveva dichiarato solennemente: «Faremo sicuramente un ottimo lavoro, spero che il faro di questa commissione sia cercare di staccare la politica dall’informazione e dalla tv di Stato». Ma da allora nel rapporto tra partiti e tv di stato nulla è cambiato. Anzi, forse se qualcosa è cambiato, numeri Agcom alla mano, lo è stato in peggio.

Nemmeno lo scorso maggio, con il premier bacchettato dall’Agcom per le presenze pre-elettorali che violavano palesemente la legge del 2000 (pur successivamente rivista), si era sentita alta e forte, per come avrebbe imposto il ruolo e la carica, la voce del Presidente della commissione parlamentare. Il quale in tutto questo tempo è apparso più interessato alle vicende interne del suo movimento che al suo ruolo di controllore massimo del rispetto delle regole del pluralismo politico televisivo nazionale.