Martin Scorsese sembra posseduto dalla energia cinetica di sempre, al di là delle sopracciglia un po’ più imbiancate dietro l’inconfondibile montatura, è un fiume in piena di parole e idee sul cinema, e la fede e le intersezioni fra le due.

Il regista è la contraddizione personificata del titolo del suo ultimo film: Silence, che dopo un prologo storico-epico (e oltremodo esotico –tratta di missionari gesuiti nel Giappone del ’600) diventa quasi una meditazione interiore – un dialogo intimo e austero e sommamente personale – sul… mistero della fede.

Adattato dall’omonimo romanzo di Shisaki Endo, scrittore cattolico giapponese, il film tratta di un padre gesuita spedito da Macao nella prefettura nipponica di Nagasaki sulle orme di un confratello di cui si sono perse le tracce e di cui si dice, sia diventato un apostata. Sullo sfondo della crisi mistica cui farà fronte c’è la resistenza degli Shogun giapponesi determinati a proteggere la loro cultura buddista e società feudale dalle ingerenze dei missionari, estirpando «scientificamente» la fede da ognuno con una efferata meticolosità speculare alle inquisizioni cattoliche.

Uno «scontro di civiltà» che non può oggi non elicitare anche una lettura politica con la sua storia di «primo contatto» fra antitetiche culture che si trasforma in conflitto per la supremazia «spirituale»; una lotta fra espansionismo (occidentale) e autarchia (orientale).

Scorsese ammette appieno questa dimensione e ha organizzato una anteprima mondiale nel Collegio Pontificio Orientale di Roma per 300 gesuiti del Vaticano.

Perché ha portato il film a Roma?

Eravamo ben consapevoli che il film avrebbe sollevato la questione missionaria. È una delle ragioni per cui l’abbiamo fatto: cosa significa portare la propria idea di salvazione (ed imporla ad altri)? Voglio leggervi una cosa che ha detto uno dei gesuiti l’altra sera a Roma dopo aver visto il film. Il suo nome è Daniel Wong, asiatico, incaricato mi sembra della diocesi gesuita delle Filippine ed ha parlato proprio dello zelo e della passione dei missionari gesuiti e anche della implicita violenza, forse anche inconsapevole di quest’opera: «la loro certezza di avere un monopolio sulla verità, e il loro disprezzo della ’verità’ giapponese, espressione di una cultura secolare, fu atto di violenza. E non deve sorprendere che lo zelo ben intenzionato venne percepito come arrogante violazione dagli stessi giapponesi».

Aggiungerei che i giapponesi percepirono molto chiaramente l’intento egemonico che si celava dietro il catechismo dei gesuiti. Il nesso fra vangelo cristiano e la violenza coloniale è una ferita da cui la cristianità asiatica non si è ancora del tutto riavuta. E queste parole sono state dette in Vaticano! Lo sanno bene.

Ma in definitiva il suo è un film sulla fede personale?

Posso dire che la mia ricerca in questo senso non è mai davvero cessata. Dal giorno in cui per primo divenni cosciente dell’esistenza della fede e la sua influenza sulle nostre vite quotidiane.

Si può avere fede e non provare compassione per nessuno. Si può sbagliare e sentirsi fatalisti e credere di non poter mai più trovare redenzione (è il senso di Kichijiro – uno dei personaggi del film, ndr).

È sempre stata una grossa parte della mia vita, ho perfino provato a frequentare il seminario, senza riuscirvi. Avevo un mentore, padre Principe si chiamava, giù nella Lower East Side. Esercitò una grande influenza su di me dagli 11 ai 17 anni. Mi diede da leggere libri si Graham Greene e Dwight McDonald e molti altri ancora. Era compassionevole ma anche severo, sapeva cavarsela sulle strade del quartiere che non erano certo facili. Non volevo altro che essere come lui.

Poi in seminario mi resi conto che la vocazione è una cosa seria, che per dedicargli una vita voler emulare qualcuno non basta, devi averla dentro – ma dentro dove? È una domanda che non ha mai abbandonato. È in Mean Streets e Taxi Driver e in Toro Scatenato. Con Raging Bull mi era parso di aver raggiunto una parziale conclusione ma poi dopo sono tornato sulla questione con L’Ultima Tentazione di Cristo che per me è stata un’altra tappa fondamentale della ricerca in particolare sul significato dell’incarnazione.

E «Silence»?

Il libro (di Shusako Endo, ndr) me lo diede per la prima volta l’arcivescovo Paul Moore, dopo aver visto proprio L’Ultima Tentazione. Allora era il vescovo della New York Episcopal Church e abbiamo avuto una lunga conversazione sulla vita e sulla fede. Mi disse: «ho un libro per te». Un paio di giorni dopo mi arrivò Silence. Lo lessi mentre preparavo Goodfellas (Quei Bravi Ragazzi) e da subito mi sembrò che questo libro, in particolare l’epilogo, potesse contenere elementi per addentrarmi ulteriormente nella questione…della vita.

La vita e i valori che si acquisiscono nel corso dell’esistenza, le situazioni che ci mettono alla prova , invecchiare, morire, la malattia delle persone a noi vicine, i figli – io non sono un uomo di famiglia e anche questa è una condizione con cui debbo fare i conti, cimentarmi: come si rapporta al lavoro, quanto può compensare l’attività di un regista? (ride) Tutto questo mi è venuto alla mente e da lì mi sono messo a lavorare alla sceneggiatura come a una sorta di pellegrinaggio.

Un cammino lungo trent’anni!

Quando ho letto il libro ho cercato immediatamente di ottenere i diritti, e ci siamo riusciti abbastanza velocemente, con l’aiuto di Mario e Vittorio (Cecchi Gori, ndr). Credevo di averlo capito, ma quando ci siamo messi a scrivere il copione con Jay Cocks nel 1991 o ’92, non ci siamo riusciti. Ci imbarcavamo di continuo in tangenti politiche o culturali che non funzionavano, non riuscivamo a distinguere cosa fosse davvero essenziale.

E specialmente le ultime 20-30 pagine, per me rimanevano un gran mistero. Continuavo a ritornare al testo, a rileggerlo nel tentativo di capire come girarlo, specialmente il concetto centrale di apostasia, che cosa è e cosa rappresenta e come si può «fotografare»?

Durante questo processo Vittorio Cecchi Gori è diventato senatore e ha avuto difficoltà legali ed è finito in carcere. Altri avanzarono pretese sui diritti e presto tutto diventò un groviglio di cause legali e finanziarie.

Alla fine i problemi sono stati risolti…

Per me è stata sempre questione di ’quanto lo vuoi davvero fare questo film?’ E che sacrifici sei disposto a fare per vederlo completato. Voglio dire: a livello di finanze personali, nessun salario, anni di ritardi, problemi sovrapposti di famiglia. È un grande sacrificio ma se dici che lo vuoi fare, in un certo senso ti tocca provare quanto tu lo voglia davvero, mettendoci del tuo. È sempre stato così, a partire da Mean StreetsTaxi Driver.

scorsese papa

A proposito, quest’anno cade il 40/mo anniversario di quest’ultimo. Come vi incontraste con Robert De Niro?

Il primo incontro avvenne nel 1969, mi sembra proprio a casa di Jay Cocks. Ci aveva messo assieme Brian De Palma che con Bob aveva appena girato Hi Mom. Bob era un ragazzo dello stesso quartiere e abbiamo scoperto di avere un sacco di conoscenze in comune anche se frequentavamo giri diversi.

Lui era giù, vicino a Grand e Hester Street, la mia zona era quella vicina a Prince e Spring e Houston…su Elizabeth. Quando è arrivato Mean Streets gli chiesi di fare la parte (di Johnny Boy, ndr). Non solo era un attore ma forse l’unico attore al mondo che conoscesse esattamente quelle strade e cosa significhino e ciò che stavo cercando di raccontare.

Parlando di vocazione, quella per fare film quando l’ha trovata?

Nel 1955 a New York il cinema indipendente non esisteva. Kubrick aveva fatto un paio di film e c’era stato Blast of Silence (di Allen Baron, ndr). Poi alla fine degli anni ’50 arrivò Shadows di Cassavetes e allo stesso tempo cambiava la tecnologia e ci liberava dall’obbligo di rimanere legati agli studios e ai loro soldi. Tutto avveniva nel momento in cui mi espulsero dal seminario.

Non avevo capito cosa fosse una vocazione, non avevo vissuto abbastanza per farlo. Ma una vocazione deve essere per forza clericale? Non si può tener fede ai propri valori anche senza collare? Credo che quella mia passione rifluì nel cinema fatto a 16 mm, a metà degli anni 60.

Data la cronaca attuale, sembra legittima una lettura del film in un ottica di conflitto e globalizzazione, pur se nel Seicento. Soprattutto alla luce della recente recrudescenza di integralismi ideologici e religiosi…

Lo trovo terrificante ed è singolare che dopo tutti i ritardi subiti, il film esca proprio ora in un momento in cui torna a parlare di rinnovati nazionalismi e protezionismi, di conflitti per il petrolio, la terra e l’acqua.

Prima della seconda guerra mondiale Russia e Germania si spartirono l’Europa dell’Est che entrambi consideravano popolata da «inutili mangiatori». Oggi sento lo stesso pericolo nella tendenza a separarsi ed isolarsi invece di tentare di comprenderci.

Invece di avvicinarci alle culture altrui sembra che stiamo regredendo. È preoccupante. E così la religione può diventare strumento politico, uno slogan, mentre invece dovrebbe essere tutt’altro.