Negli Stati Uniti i seminari di Judith Butler fanno il tutto esaurito, mentre teorici «postcoloniali» come Homi Bhabha e Gayatri Chakravorty Spivak sono vere e proprie «star» nei campus statunitensi. Tutti loro però hanno un’influenza risibile nei movimenti sociali nel Nord e nel Sud del pianeta. Sono certo letti, discussi, ma quando si tratta di agire politicamente le loro opere sono lasciate alla critica roditrice dei topi. È questa la sintesi di uno dei passaggi che riassumono il volume Che fine hanno fatto gli intellettuali? (ombre corte, pp. 103, euro 10), libro intervista a Enzo Traverso, uno degli storici contemporanei che ha scelto di essere un «cervello in fuga» (è stato ricercatore e docente prima a Parigi e adesso alla Cornell University di Ithaca negli Stati Uniti). Ha scritto libri importanti sul Novecento – A ferro e fuoco (Il Mulino) e Il secolo armato (Feltrinelli) – e sulla cultura ebraica (La fine della modernità ebraica, Feltrinelli).

In questo volume affronta la crisi di una figura centrale nella storia della modernità, l’intellettuale, sia nella sua declinazione come intellettuale organico, intellettuale specifico e maître à penser. Una riflessione, la sua, che aiuta a comprendere come la «fabbrica del consenso» produce opinione pubblica nelle società contemporanee, con la scena occupata appunto dagli opinion makers, mentre gli intellettuali sono tornati a esercitare la funzione ancillare verso il potere costituito, come d’altronde testimonia l’esperienza dei nouveaux philosophes e dei loro epigoni, che in nome dell’universalismo dei diritti umani hanno legittimato guerre imperiali e il dominio dell’ideologia del libero mercato.

Una trama che viene da lontano

L’autore concentra la sua analisi sui motivi del perché una figura così familiare nelle cronache del lungo Novecento ha ormai una posizione marginale sulla scena pubblica. Non essendo più organico a una classe sociale o a un partito, l’intellettuale deve semmai «decostruire» l’ordine del discorso dominante in assoluta autonomia e indipendenza da ogni potere economico o politico. In questa connotazione del suo agire pubblico nulla però è concesso a una visione aristocratica della loro presenza in società: l’intellettuale deve continuare a prendere posizione, anche se quando lo fa non ha nessun «compagno di strada» al suo fianco.

Nella ricostruzione storica presentata in questo volume, il Novecento è, oltre che il secolo del movimento operaio, anche il secolo degli intellettuali che, abusando di una espressione divenuta triviale per l’uso che ne è stato fatto nel recente passato, «sono scesi in campo», si sono schierati, manifestando punti di vista «partigiani». Nel cercare la genesi della loro politicizzazione tesse una trama che parte da lontano, da quei passi della Repubblica di Platone, dove il filosofo greco indicava nei sapienti il compito di illuminare la caverna dove vivevano gli uomini, ma insiste a concentrare l’attenzione sul punto di svolta costituito dagli enciclopedisti francesi. È con loro che gli intellettuali abbandonano il backstage del teatro politico, dismettendo così i logori abiti del consigliere del principe.

Gli enciclopedisti mettono infatti a disposizione del «pubblico» il loro sapere affinché le nebbie della superstizione e del pregiudizio dell’ancient regime lascino il posto al dominio della ragione. Ma anche in questo caso non è il caso di parlare di intellettuale in senso moderno. Certo, alcuni filosofi, matematici, fisici, architetti, ingegneri partecipano direttamente alla Rivoluzione francese, ma è con l’«affaire Dreyfus» che entra in scena l’intellettuale moderno. È infatti in quell’occasione che gli intellettuali danno vita a una campagna politica contro chi tira le fila del potere. E poche frecce al loro arco hanno coloro che, pochi decenni dopo, denunciano, come Julian Benda, questo «tradimento dei chierici», invitando letterati e filosofi a tornare a scrivere e pensare al riparo delle cose terrene. La spinta a questa politicizzazione degli intellettuali viene da una successione di «eventi» che hanno reso il Novecento il secolo del «ferro e del fuoco»: il primo conflitto mondiale, la rivoluzione russa, il fascismo, il nazismo, il new deal statunitense, la decolonizzazione.

Da Sartre a Gramsci

Una storia nota. Merito di Enzo Traverso è di sottolineare il fatto che intellettuali pubblici non sono stati solo quelli schierati con i partiti comunisti o socialisti, ma anche studiosi raffinati, nonché espressamente conservatori, come il francese Raymond Aron o il tedesco Thomas Mann di Considerazione di un impolitico. Altrettanto importante è la sua contestazione dell’immagine caricaturale del maître à penser, che per il secondo dopoguerra è coinciso con il volto di Jean-Paul Sartre, un filosofo colpito da una damnatio memoriae che lo ha dipinto come l’incarnazione dell’intellettuale asservito al totalitarismo e simbolo di un «chierico» asservito a un potere totalitario che ha rinunciato ad esercitare il diritto di critica. Traverso ricorda, invece, che Sartre era sì un filosofo impegnato, ma che non ha mai rinunciato alla libertà di criticare anche «la sua parte». Non è stato mai organico a nessun partito, anche se Traverso restituisce bene l’articolazione dell’intellettuale organico proposta da Antonio Gramsci nei «Quaderni dal carcere». Anche qui, nulla è concesso alle letture riduzioniste e caricaturali che sono state fatte della figura gramsciana.

Ma se il maître à penser e l’intellettuale organico non godono buona salute, quello specifico di Michel Foucault sta conoscendo con eguale intensità lo stigma che ha colpito l’impegno politico. Va ricordato che per il filosofo francese, l’intellettuale specifico era l’esito di un processo di politicizzazione che ha investito non solo gli studiosi umanisti, ma anche le discipline tecnico-scientifiche. Gli esperti, gli scienziati sono anch’essi diventati il «vettore» attraverso il quale viene prodotta l’opinione pubblica, perché la scienza e la tecnologia sono ritenuti portatrici di verità oggettive: l’esatto contrario di quanto scriveva Foucault sugli intellettuali specifici, divenuti elementi critici proprio della pretesa oggettività della scienza e della tecnologia, divenute nel tempo componenti del biopotere nelle società capitaliste «mature».

La dialettica rimossa

C’è un passaggio del libro che l’autore non approfondisce e che forse potrebbero spiegare l’attuale marginalità degli intellettuali. È quando accenna ai lavoratori della conoscenza e alla loro condizione di precarietà. Poche righe lasciate lì sospese, quando potrebbero diventare la leva di una analisi spregiudicata dell’industria culturale, il rimosso di questo volume, perché la sua esistenza pone nuovi elementi per analizzare il declino degli intellettuali. Emancipati dal rapporto con il potere politico per la loro riproduzione in quanto gruppo sociale, gli intellettuale dipendono economicamente proprio dall’industria culturale. Da questo punto di vista la denunciata deriva di una loro riduzione a figure salariate fatta nella Dialettica dell’illuminismo da Adorno assume una inattesa attualità.

Adorno indicava nell’industria culturale il potere manipolatorio delle coscienze e indicava nell’autonomia dell’intellettuale la via maestra per una critica della realtà, omettendo la progressiva trasformazione degli intellettuali in lavoratori salariati. Allo stesso tempo, Edward Said, altra figura centrale in questo libro, scriveva che tale attitudine critica andava manifestata anche in assenza di una classe sociale o di un partito di riferimento. Nell’era dell’informazione, la critica all’ordine del discorso dominante si accompagna a una presa di parola sulla propria condizioni di salariati – anche se talvolta lautamente retribuiti – dell’industria culturale. Solo così, il declino dell’intellettuale può favorire lo sviluppo di quell’intellettuale collettivo tanto caro ad Antonio Gramsci.