Malaventura e Bonaventura. Stesso giorno, 28 ottobre, stesso anno: 1917. Sembra commedia all’italiana, che fa combaciare tragedia e risata. Invece, è storia. All’italiana. Cent’anni fa, durante la prima guerra mondiale, la disfatta di Caporetto – nome passato a definire disastri irreparabili – e, insieme, la nascita d’una delle più allegre e longeve maschere del buonumore: il Signor Bonaventura, fortunato personaggio a fumetti di Sergio Tofano, in arte Sto, apparso per la prima volta sul numero 43 del Corriere dei Piccoli. Gli opposti anniversari vengono entrambi celebrati, con la debita distanza d’umori, in due diversi eventi: il nuovo documentario di Davide Ferrario (vedi intervista nel numero di Alias del 2 dicembre), Cento anni, in anteprima mondiale al 35mo Torino Film Festival (dal 24 novembre al 2 dicembre) e Ricomincia l’avventura: il neonato di Caporetto, in prima nazionale al PFA (Piccolo festival dell’animazione, dall’11 al 29 dicembre), nel programma «Guerra & Cartoon» al Visionario di Udine, dove il 13 novembre riappare in due inediti corti in 3D il personaggio di Sto, di cui l’invidiato happy end alla fine d’ogni tavola a fumetti era di intascare un fanta-bigliettone d’un milione a ricompensa d’una sua impercettibile, sempre involontaria, azione benefica. Da una parte, metallo, fango e sangue della guerra reale di un’Italia in miseria, politica e sociale. Dall’altra, il fantasy di carta d’una fortunata Caporetto a matita, dove ogni disastro si rovescia a fine pagina in un beneficio regolarmente e munificamente premiato.
TRILOGIA ITALICA
Il film di Ferrario, che conclude la sua trilogia sulla storia italiana, dopoPiazza Garibaldi e La zuppa del demonio, ripercorre tutte le nostre «Caporetto». È un viaggio dal 1917 a oggi, racconto in quattro capitoli di altrettanti periodi cruciali della storia italiana, dalla disfatta del 1917 a altre vicende di sconfitta ma anche di riscossa: la Resistenza e il post-fascismo, la strage di Piazza della Loggia a Brescia nel ‘74 e l’attuale crisi demografica, una specie di débacle finale. «Con Caporetto – spiega Ferrario – è nato il paradigma della catastrofe che porta al riscatto. Quante ne abbiamo viste, da allora, in tutti i campi: militare, civile, economico, sportivo, politico. Ecco allora quattro Caporetto della nostra storia, ciascuna narrata con uno stile diverso». In sala dal 4 dicembre, con la distribuzione di Lab 80 film, Cento anni, un secolo dopo, riaffonda la memoria nella prima e nelle successive Caporetto del Novecento, dalla Risiera di San Sabba alla diga del Vajont, all’odierno svuotamento demografico, specie al Sud, da cui i giovani van via, voltando le spalle – ultima battaglia perduta – al loro Paese.
A loro tornerebbe comodo anche solo qualche spicciolo di quei Milioni giganti – li avesse messi in banca – che, senza volere, riceveva ogni settimana il Signor Bonaventura. Ma erano milioni virtuali, sogni di carta: tanto più irreali quanto più ne era stato svilito (svalutato?) il rapporto tra dare e avere – non a caso in un contesto fiabesco o a fumetti -, caricando d’un compenso pachidermico, con un biglietto mai emesso dalla Banca d’Italia, un beneficio fatuo e volatile. Quel poeta della matita e fanciullo della rima («Qui comincia l’avventura/del Signor Bonaventura») che era Sergio Tofano non poteva sporcarsi le mani con i soldi, di cui giustamente aveva distrutto il valore reale, o convenzionale, creandone uno iperbolico e astratto. Tanto che, in una tenera videointervista presentata a Ercolano al terzo Festival della Memoria al Mav (Museo Archeologico Virtuale), Un milione di Sto (2009, riprese di Elena Fiorenzani, montaggio di Tommaso Lipari), Paolo Poli, scomparso nel 2016 a 87 anni – cultore dell’opera di Tofano, regista e interprete nel 1964 nel ruolo del bellissimo Cecè dello spettacolo Un milione – confessa di «aver faticato a convincere Tofano a iscriversi alla Siae, per ottenerne le pur flebili percentuali sui diritti d’autore». Cosa che rifece con Cesare Pavese, ormai estinto, mai iscritto alla Siae: «Quando mettemmo in scena un suo testo, mi recai all’anagrafe di Santo Stefano Belbo, presentandomi come suo nipote, per registrarlo alla Siae. Altrimenti, lo spettacolo sarebbe stato considerato d’autore straniero».
PEDAGOGIA
Il papà del Signor Bonaventura, nuova «maschera» delle strip e, insieme, delle scene italiane del Novecento, aveva esordito in teatro, nella compagnia di Ermete Novelli, nella stagione 1909-10. Sarà poi protagonista della ribalta in compagnia con Gino Cervi e Vittorio De Sica. Nato a Roma nel 1886, Tofano diventa Sto – il suo pseudonimo – 22 anni dopo, nel 1908: lo stesso anno in cui, il 27 dicembre, appare il primo numero del Corriere dei Piccoli, supplemento illustrato del Corriere della Sera – formato cm 20 x 28, vignette scandite dagli ottonari in rima baciata -, che diventerà in breve una passerella di personaggi immortali, dal Buster Brown di Outcault a Quadratino di Antonio Rubino, al Signor Bonaventura di Sto. Pierrot futurista in calzoni bianchi e pellegrina rossa, la sua prima «sventura» (non ancora «avventura»), pubblicata sul Corrierino il 28 ottobre 1917, appare in un’Italia in cui i minori di 14 anni erano ben 12 milioni (un terzo dei suoi abitanti): il nuovo settimanale non tarderà ad attestarsi sulle 40mila copie (una ogni 300 bambini) divenendo, con la sua pedagogia in quartine, il precettore colorato delle nuove generazioni, il nonno YoYo della pre-tv. Il «maestro» meno inquadrato – irreggimentato, si dovrebbe dire, data l’epoca – è Sto, che costruisce le sue microparabole in ottave e pellegrina su teoremi d’antiretorica nazionale. Il Signor Bonaventura si conquista l’inutile Milione alla fine d’ogni tavola, non perché la sua «sventura» (in seguito «avventura») sia stata ispirata da sani princìpi patrii, ma semplicemente per caso: in anni, oggi di ritorno, di demagogica propaganda in cui tutto deve rientrare in un ordine prestabilito di devozione e sacrificio, Bonaventura è uno spiritello futurista, risposta comica e dinamica a coatti, plumbei valori. La sua avventura – parabola di virtù e benessere – nasce da premesse non sempre irreprensibili (nella prima tavola, il tentativo d’agguantare un fiore dal balcone del vicino), ma ha un epilogo individualmente o socialmente positivo (sempre nella prima tavola, cadendo dal balcone, Bonaventura finisce su una balla di bambagia appena rubata, facendo arrestare il malandrino). È il riscatto della creatività, dell’istinto – in una parola: della libertà – nell’incombere d’un cupo ventennio di valori preconfezionati e conformi. Il Bonaventura di Sto (scomparso, a 87 anni, nel 1973) è uno Sfortunello – «classico italiano» – che si trasforma in Portafortuna: per gli altri e per se stesso. Come mostrano i tasselli tv di quel Blob Bonaventura preparato e presentato da Marco Giusti per l’incontro al MAV di Ercolano: telemosaico di Sto – rarità, giocoso Fuori Orario con incursioni tra inediti su piccolo e grande schermo, Caroselli dimenticati, copertine di dischi, tavole di fumetti ritrovate. Quasi un video-bis dei materiali scrupolosamente raccolti negli anni da Maddalena Menza e confluiti nel suo diligente Sergio Tofano e il Signor Bonaventura, edito nel 2014 da Kappa.
Al festival sono in programma in formato digitale aggiornato in 3D «Bonaventura e il canotto» (2000) e «Bonaventura e il baule» (2002) soggetto adattato dal figlio Gilberto Tofano e da Marco Bigliazzi, film pilota di una serie mai andata in onda.
Cent’anni dopo, una pioggia di rime e Milioni, lievi e inafferrabili come farfalle di fiaba, iniziata il giorno d’una tragica pioggia di bombe. Da cui il pupazzetto inventato da Sto è uscito indenne, e ancor più fiabesco, unico vincitore italiano a Caporetto. In ogni caso, l’unico superstite. Non lo merita, ancora oggi, un Milione?