Alle prime intense piogge di questi giorni, la mente corre ai “novembre” dell’alluvione del Polesine, di Firenze e Venezia e a tutte quelle che ho visto nel corso della mia vita. Dopo la più calda estate degli ultimi cento anni sono cominciate le piogge, improvvise e violentissime.

Diecine di centimetri di acqua caduta in un solo giorno, in zone spesso relativamente ristrette. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti; paesi allagati, case distrutte, fabbriche ferme, campi che hanno perduto i raccolti, prima per la siccità e ora per gli allagamenti. Miliardi di euro di soldi, pubblici per ricostruire strade e per risarcire i danni, privati, ma soprattutto beni materiali spazzati via e dolori, spesso morti.

Le cause sono due, su entrambe si potrebbe intervenire, se si volesse.

Le bizzarrie di siccità e piogge sono dovute ad un ormai innegabile mutamento del clima rispetto ai decenni e secoli precedenti: mari più caldi a livello planetario, fusione dei ghiacciai permanenti, modificazioni irreversibili del grande ciclo dell’acqua planetario.

Se ce ne fosse stato bisogno lo hanno ripetuto, nei giorni scorsi, anche gli scienziati dell’amministrazione dello scettico presidente Trump.

La rivoluzione industriale del carbone dell’Ottocento, ma soprattutto nell’ultimo mezzo secolo l’età del petrolio, con l’aumento del consumo dei combustibili fossili, l’irrinunciabile alimento della società dei consumi — nei paesi industriali, in quelli di recente industrializzazione e in quelli poveri che aspirano ai modelli di vita europei ed americani — hanno provocato un crescente flusso di gas (anidride carbonica, metano e altri) che, immessi nell’atmosfera, ne alterano la composizione chimica.

Questo fenomeno, come è noto, fa lentamente aumentare la quantità di calore solare che resta “intrappolato” nell’atmosfera e che riscalda, di conseguenza, continenti ed oceani.

Da decenni gli scienziati chiedono ai governanti della Terra di rallentare il flusso nell’atmosfera dei gas che alterano il clima, modificando la produzione e il consumo di merci e di servizi, ”limitando” le attività che comportano un crescente consumo di combustibili fossili.

Nei prossimi giorni a Bonn sentiremo i governanti del mondo discutere, per la ventitreesima volta, di un grado e mezzo o di due gradi di riscaldamento, di “p.p.m.” di gas serra, se sono più colpevoli il carbone o il metano o le flatulenze dei bovini, concludere con dichiarazioni di buona volontà, anche se nessun governante dei paesi maggiori inquinatori vuole scontentare i venditori di carbone, di automobili, di petrolio, di gas, di elettricità, eccetera.

Tutto questo per dire che la situazione continuerà per anni come la conosciamo adesso, con tutti i suoi danni d’estate e d’inverno.

Ciò premesso, i danni dei mutamenti climatici sulle attività umane derivano soprattutto dal fatto che l’acqua piovana, per quanto intensa, non trova più le strade per raggiungere il mare da dove si è originata, quelle strade, rigagnoli e poi torrenti e poi fossi e poi fiumi, che la natura nei millenni aveva predisposto per agevolarne il moto lungo le valli e nelle pianure.

In Italia, nel dissennato uso del territorio di tanti decenni sono stati costruiti, autorizzati ed abusivi, edifici, strade, ponti, ferrovie, senza alcuna attenzione al moto delle acque, anzi alcuni interventi rappresentano veri ostacoli al moto delle acque; per alcune “infrastrutture”, come le chiamano, sono stati sbancati i fianchi delle valli e sono così stati accelerati i fenomeni erosivi che lasciano un suolo nudo su cui più facilmente e violentemente scorrono le acque.

Spesso dove è arrivata la presenza umana la copertura vegetale è stata considerata inutile; dove si pensa che siano d’intralcio alle opere “economiche”, alberi e macchia vengono estirpati o bruciati. Quest’estate poi la forza devastante degli incendi ha reso il suolo di centinaia di migliaia di ettari ancora più esposto all’erosione.

Per attenuare i dolori e i costi delle alluvioni ci sono (ci sarebbero) alcune cose da fare: prima di tutto opere di rimboschimento e incentivi per riportare l’agricoltura nelle zone collinari perché la cura del bosco e il paziente e rispettoso lavoro degli agricoltori sono i principali rimedi per regolare il flusso delle acque nel loro cammino dalle valli al mare.

Se il suolo è coperto di vegetazione la forza di caduta delle gocce d’acqua si “scarica” sulle foglie e sui rami, che sono elastici e flessibili, e l’acqua scivola dolcemente verso il suolo e scorre sul terreno con molto minore forza erosiva e distruttiva.

Quest’anno avremmo avuto un lungo periodo senza piogge che avrebbe consentito, ad un governo previdente, di far ispezionare tutte le vie di acqua e di far sgombrare le rocce e la vegetazione e gli ostacoli che le ingombrano e che rendono le valli più esposte alle frane.

Vorrei fare la modesta proposta di istituire un Servizio Idrogeologico Nazionale che tenga sotto continuo controllo lo stato dei corsi dei fiumi, proceda alla pulizia e manutenzione di tutte le strade percorse dall’acqua nel suo moto verso il mare, dei fossi, dei torrenti e dei fiumi maggiori al fine di rimuovere gli ostacoli incontrati dalle acque e di tenere aperte le vie naturali del loro scorrimento, che predisponga la liberazione dei fiumi e canali che sono stati “intubati” e coperti per guadagnare spazio per strade e edifici. Quando un flusso più intenso di acqua incontra queste prigioni artificiali, l’acqua “si arrabbia” e torna violentemente in superficie e porta distruzione e morte.

La istituzione di un Servizio Idrogeologico Nazionale consentirebbe la creazione di diecine di migliaia di posti di lavoro; capisco che è forse difficile trovare dei laureati che accettino di camminare lungo i torrenti e i canali, di controllare e identificare gli ostacoli al moto delle acque, di pulire i tombini nelle città, ma ci sarà pur gente che ha voglia di farlo considerando che questo servizio è il più importante, anzi unico, sistema per evitare disastri futuri.

So bene quanto sia difficile questo progetto ma so anche quanta ricchezza e lavoro potrebbero essere mobilitati e quanti costi monetari e dolori futuri potrebbero essere evitati.

Infine all’ingresso dei vari ministeri dell’ambiente, delle infrastrutture e delle loro agenzie e uffici periferici che parlano di sostenibilità e di resilienza, proporrei di scrivere l’ammonimento di Albert Schweitzer: «L’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire; finirà per distruggere la Terra»..