Un padre alle prese col suo piccolino malato di cancro. Lo devono operare, non sanno assicurare nulla, a casa è rimasta la moglie con gli altri figli. L’uomo l’ha presa come una missione, non vuole farla preoccupare. Coi bambini scherza al telefono (non li vedremo mai né loro né la mamma), parla dei compiti di inglese e delle partite di pallone. Con la moglie minimizza, si lamenta dei troppi arabi che «fanno schifo», poi però quando nessuno lo vede piange, e la notte per tirare su un po’ di soldi va a scaricare ai mercati generali insieme agli «stranieri». È razzista Antonio – questo il nome del personaggio – come tanti italiani. Diffidente, sospettoso, non dice una parola, non cerca un po’ di confidenza o quella reciprocità che nasce, a volte, quando si condivide una stessa, impossibile attesa. Però quel ragazzino arabo che gira in ospedale gli fa un sacco di domande, gli chiede del figlio, si offre di aiutarlo … Raccontato così I corpi estranei il nuovo film di Mirko Locatelli – scoperto con il molto bello Il primo giorno di inverno, passato qualche anno a Venezia Orizzonti – che mi aveva sorpresa, e conquistata, già alla prima visione in concorso al Festival di Roma, può persino spaventare. E invece no: è vero, è un film che ci avvicina alla malattia, pur spostando l’accento su cosa significa questa dimensione per chi sta accanto al malato, i cosiddetti «sani». Ma soprattutto è un film che senza retorica sa raccontarci il sentimento della fragilità. Non il dolore – «rischiava di diventare patetico» aveva detto Locatelli al festival – ma appunto questa fragilità contemporanea diffusa: privata, collettiva, dei nostri tempi, del nostro mondo. E lo fa sperimentando una forma cinematografica lucida, tesa, commuovente, segno di quel cinema italiano «inclassificabile» che nasce fuori dal sistema e forse è per questo il più vitale.

La malattia nella scrittura del regista – che firma la sceneggiatura insieme a Giuditta Tarantelli – diviene lo sfondo di una trama su cui si intrecciano i fili del presente, e man mano che il rituale del quotidiano va avanti, coi suoi gesti di speranze e bestemmie, paura e preghiera, voti e amuleti ripetuti all’infinito, si rafforza la sua dimensione di «pretesto» narrativo, un punto di partenza per condurci a qualcos’altro. Pure se ci troviamo in un ospedale, con le pareti spudoratamente colorate di pupazzi, e lo skyline della Milano dei grattacieli.

 

Chi sono allora i «corpi estranei» a cui fa riferimento il titolo? Non quello sparuto gruppo di parenti che si aggirano inadeguati tra i corridoi e i colloqui coi medici in sintonia col codice dominante. Sono tutti padri, o quasi, a parte le donne al capezzale del ragazzo tunisino che intravediamo appena. L’universo del film (dedicato da Locatelli a suo padre) è infatti un universo narrativo di uomini che appaiono ancora più «fuori luogo», rappresentati nel rapporto diretto, intimo, di cura dei figli, che nell’immaginario non gli appartiene. Dove Antonio – a cui da vita Filippo Timi con molta intensità – distrutto nel cuore a dispetto del corpo spaccone, ci appare come la punta estrema di questo maschile goffo, e inadeguato nell’essere al mondo. È una questione di archetipi, di ruoli, come quando ti dicono da piccolino che sei un ometto e non devi piangere. Il maschile ancorato alla sua virile sicurezza, somiglia al pensiero che si attacca a certezze assolute, integralismi di fede, di «razza», di cittadinanza, di famiglia e di sessualità rifiutando il confronto con quanto può metterli in crisi. E trasforma il disagio della certezza in un pregiudizio, dove nascondere il bisogno disperato, e molto indistinto, di qualcos’altro.

Leccateli lo cerca sul bordo del riflesso, forse ancora padre e figlio, che mette davanti a Antonio il ragazzo tunisino Water (Jaouher Ibrahim), il «corpo estraneo». Un pedinamento costruito in modo quasi geometrico, senza concessioni,che è quasi una sfida ma non per vincere.

Cosa è che interroga al punto da spaventare così tanto Antonio la presenza di quel ragazzino gentile? Forse, appunto, le certezze sedimentate nel luogo comune, razzismo in testa, forse i modelli di comportamento del Padre, dei quali riesce a intuire la segreta «fragilità». Esprimendo qualcosa che obbliga a riposizionare lo sguardo, il proprio essere, le proprie convinzioni. Una lezione di «fragilità» che è la sua grande forza.