Domani la Russia vota per la Duma, è prevista un’affluenza di meno del 50% degli elettori, scontata è la vittoria di «Russia Unita», il partito al potere, e la rielezione di una pattuglia di deputati comunisti e di deputati iper-nazionalisti mentre i partiti liberal democratici non dovrebbero superare lo sbarramento del 5%. È in vigore una nuova legge elettorale per cui metà degli eleggibili è indicata dai partiti con voto proporzionale e metà in collegi uninominali territoriali. C’è poi una nuova commissione elettorale, presieduta da un «indipendente» che dovrebbe vigilare per impedire i brogli del passato.

Al di là dell’appuntamento elettorale i russi vicono tempi amari. E non tanto per la situazione economica, il peso delle sanzioni, il calo del prezzo del petrolio, la rottura dei contratti europei riguardanti i gasdotti. Quel quasi 50% che si recherà alle urne, è in gran misura la quota di popolazione che riesce economicamente a cavarsela, ma è anche la stessa che si sente politicamente sotto assedio. È preoccupata per la tenuta di Putin, teme che non riesca a fronteggiare i suoi nemici e non quelli interni, i dissidenti alla Kasparov, l’ex campione di scacchi cui il New York Times concede tutto lo spazio che vuole per convincere i lettori americani delle sue capacità politiche. È proprio l’antirusso New York Times lo specchio delle preoccupazioni della classe medio-alta russa. La quale vorrebbe identificarsi con quella europea e americana e mal subisce le conseguenze della generale avversione per il governo del suo paese.

Alla luce degli ultimi cambiamenti geopolitici inspiegabile appare ai russi l’ostracismo internazionale. Poiché da un lato vi è la Russia che si riprende «la sua Crimea» ma dall’altro vi sono la Turchia, l’Egitto, l’Arabia Saudita, la Polonia, l’Ungheria e persino l’Austria con il suo nuovo muro. E i ghetti della crisi sociale Usa. Alcuni leader politici possono permettersi comportamenti autoritari e repressivi senza meritarsi altro che blandi rimproveri mentre Putin è messo al bando come fosse uno zar del passato pre-sovietico e allo stesso tempo l’ex spia dell’ex Kgb. E i russi che lo appoggiano all’80% sarebbero o troppo subalterni o troppo corrotti.

La realtà è che i russi benestanti, post sovietici non vedono Putin come uno zar ma come l’ex figlio di un operaio modello di Leningrado, che invece di diventare ingegnere, ha scelto la «carriera» nei servizi segreti, è stato 7 anni a Dresda/Europa, e poi ha sfruttato l’epoca Yeltsin rivelando un istinto da «politico professionale». L’istinto che oggi lo ha convinto a mettere nelle retrovie i suoi antichi colleghi dei servizi, che così tanto gli osservatori esteri gli rimproverano, e a promuovere politici nuovi, giovani senza altri legami, che non la riconoscenza per chi li ha promossi. Epperò il suo atto politico più riuscito è la saldatura con la chiesa ortodossa, promossa sua alleata e fornita di una organizzazione, interna e persino estera, che la rende simile a un partito. Altro che «Russia unita». E di recente ha creato un corpo di Guardia nazionale a difesa del terrorismo (e del dissenso interno).

Basteranno queste iniziative a farlo arrivare alle elezioni del 2018? I russi se lo chiedono e soprattutto lo sperano. Non solo quelli che leggono la stampa internazionale e aspirano alla legittimazione internazionale ma anche gli altri, quelli che sono informati solo dalla tv di stato e sono pieni di risentimento nei confronti dell’America, dell’Europa e soprattutto dei paesi est europei. Ricambiati alla millesima potenza da polacchi, ungheresi e così via.

Il noto storico Stephen Coen su The Nation è stato il primo a lamentarsi del ritorno della guerra fredda, che si reggerebbe non più sulla contrapposizione socialismo-capitalismo, bensì sulla competizione strategico-militare. Come se Reagan fosse tornato sulla scena alle prese con un Putin che aspira alla parità almeno negli armamenti. Una vera provocazione per il Pentagono e per la Nato. Altro che la minaccia di chiusura dell’Istituto di sondaggi Levada che si è permesso di registrare un calo di consensi per il partito al potere. L’ostracismo per la Russia di Putin ha la sua base nelle basi militari, da quelle in Crimea alle molte altre. Poiché paradossalmente dal crollo del socialismo in piedi è rimasta la potenza strategico-militare dell’ex Urss. Una realtà difficile da accettare per l’altra potenza.