In questi giorni a cavallo tra la fine del vecchio e l’inizio del nuovo anno, oltre a nome illustri, sono andate vie persone care, sorelle, padri, madri di amici cari.
Mi è capitato di recarmi a due funerali a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro: due donne, una di mezza età e una ultra novantenne – madre nonna e bisnonna – ambedue fortemente amate, donne attive, vitali, gioviali, potenti. Sono state tristemente piante da tutti i presenti. Mi è capitato quindi, quasi inevitabilmente, di soffermarmi a pensare alla morte dei miei genitori, a quanto sia impreparata ad affrontarla, che capiti tra dieci-vent’anni (come spero caldamente) o all’improvviso. Mi sono immedesimata nel mio amico e nella mia amica, nelle loro lacrime, nella loro degna acquisizione del vuoto parentale.

Di sicuro ci sono molti modi di gestire un lutto. Ci si può chiudere al mondo, ci si può aprire, si può provare a sorridere lo stesso, nonostante l’enorme, lancinante, sconvolgente mancanza.
Allora guardo l’indagine di Sarah Amy Fishlock nella serie fotografica chiamata Beloved curve. Penso alle domande che deve essersi posta. La fotografa perde il padre amatissimo e non si dà pace. Trova dei rullini già scattati e li impressiona per una seconda volta (tecnica di doppia esposizione già adottata da altri tra cui, negli anni Novanta, dall’artista-scenografa Barbara Bessi).
Così il lavoro diventa diario intimo: suo padre è ritratto con l’autrice stessa, una bambina di quattro anni e i capelli legati in delle trecce, una maglietta a righe, l’uomo indossa un giubbino per la pioggia a scacchi, la tiene in braccio, le loro mani sono vicine, delle mani grandi e delle mani piccole, su di loro è stampato sopra un panorama di rigogliose foglie come di palma, sembrano quasi frutti tropicali, una natura molto presente, che in trasparenza invade i visi, li fa quasi scomparire, ma senza effetto drammatico, piuttosto mantenendo vivo l’amore tra i due.

Qui la storia di famiglia si fa fitta perché la bambina cresce e noi seguiamo questo percorso: siamo in giardino, il padre si prende cura di lei, con un cucchiaino le dà da mangiare e poi, sopra, sono impressi fiori bellissimi, primule screziate di rosa, rosa fucsia su rosa chiaro: amore puro. Sarah Amy cresce ancora: sul cavallino di una giostra col padre che sta seduto dietro e la tiene, per non farla cadere: la bambina indossa di nuovo una maglietta a righe, forse la stessa che ora le va più stretta, il cavallo in primo piano sorride, dietro del verde, un parco giochi, ma di nuovo la fotografa ci spiazza imprimendo sopra il mare, la schiuma, il bagnasciuga, la riva, l’acqua che porta avanti e indietro, come il tempo, le cose.

La natura ha il suo corso, forzatamente, a dispetto di tutto e di tutti: erode, decompone, reinventa, semina, germoglia, nutre e uccide con il clima appropriato, al momento esatto, secondo cicli naturali, atavici, reali e imprescindibili. L’uomo che se ne relaziona subisce sempre lo smacco, lo scacco di perdere davanti a tanta magnitudo. In questo lavoro di sovrapposizione, sovraesposizione, tutto conduce ad un felice incontro, connubio di materia e immaterialità, di corporeità e fantasmaticità, terra e corpo e aria tutte mescolate insieme in un cocktail che non può che dare in testa e far perdere. Ma perdersi, per un fruitore di arte e di bellezza, è il fine ultimo dell’esperienza della visione: infilarsi nelle maglie del Bianconiglio con il rischio (a volte la speranza) di non sapere ritrovare la strada di casa. Perché, come Sarah Amy Fishlock ci insegna, la strada di casa è tutta interna a noi stessi.

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