Intervista a Joseph Torigian,mentre sta lavorando a una biografia del padre di Xi Jinping, l’ex vicepremier riformista Xi Zhongxun.

Si è soliti dire che la flessibilità sia il segreto della longevità del partito comunista cinese. Quali sono le decisioni più esemplari che hanno permesso al partito di sopravvivere dalle riforme economiche del 1978?
All’inizio dell’era delle riforme e dell’apertura, dopo la Rivoluzione Culturale, la leadership era motivata in parte dal timore che senza una rapida crescita economica il partito potesse perdere il controllo. Dopo la repressione del 4 giugno 1989, alcune élite di alto rango ritennero che il partito dovesse essere più sensibile alle implicazioni politiche delle riforme e dell’apertura. Eppure, il cosiddetto “viaggio al sud” di Deng Xiaoping ha nuovamente focalizzato il partito sullo sviluppo economico. Negli ultimi anni, i leader hanno chiaramente prestato maggiore attenzione a quelle che considerano alcune implicazioni negative dell’era delle riforme e che, a loro avviso, hanno influito in maniera importante sulla gestione fallimentare di quei cambiamenti che hanno reso la Cina suscettibile a una cosiddetta “rivoluzione colorata”. In sostanza, credevano che la strategia con cui gli Usa stavano cercando di usare l’impegno economico per cambiare la Cina stesse effettivamente funzionando. Decisero quindi fosse necessario esercitare una volontà politica per invertire quella direzione.

Durante il quinto plenum, il Partito ha approvato la “vision 2035’, un piano di medio termine tra i due obiettivi centenari. Secondo te, perché la leadership ha sentito la necessità di fissare target in un futuro così lontano? Sembra controintuitivo considerando le circostanze internazionali attuali…
Sebbene Xi Jinping sia spesso visto come un ideologo con forti visioni marxiste – e in effetti vede il mondo principalmente attraverso una lente marxista – è sempre stato notevolmente cauto nel descrive la lunga strada della Cina verso il comunismo. Spesso ha messo in chiaro che per raggiungere la meta servirà il lavoro di molte generazioni e che sarebbe inappropriato affrettare questo compito storico o applicare approcci dogmatici che non soddisfano le esigenze pratiche della Cina. Questi obiettivi [di lungo periodo] sono comunque significativi. Xi Jinping ha dimostrato di avere molto a cuore gli ideali, e un senso di missione e predestinazione. Questo aiuta a spiegare perché ritiene sia importante fissare obiettivi storici.

L’era di Hu Jintao è chiamata “il decennio perduto”. Sei d’accordo con questo giudizio? Dopotutto è sotto la precedente amministrazione che la Cina è diventata la seconda economia mondiale e, mentre gli analisti occidentali solitamente sottolineano che la nomina di Xi ha segnato una rottura con il passato, molte misure introdotte negli ultimi anni erano già in cantiere. Quali pensi siano le politiche recenti più dirompenti (oltre alla rimozione del limite di due mandati)?
Gran parte dell’era Hu Jintao rimane ancora un mistero. Gli osservatori esterni hanno sempre avuto difficoltà a comprendere correttamente l’élite cinese, e solo di recente siamo arrivati a capire che molte delle opinioni comunemente condivise – anche sulla prima era di Deng Xiaoping – in realtà erano errate. Alcune tesi “revisioniste” emerse di recente, tuttavia, tendono ad attribuire al mandato di Hu toni più aggressivi, più duri e più “ideologici” di quanto precedentemente ritenuto, suggerendo così maggiore continuità con l’era Xi. Nuove prove suggeriscono persino che Hu fosse meno favorevole a una successione trasparente di quanto non si pensasse. L’ultimo libro di David Shambaugh sottolinea anche che Hu ha avuto più successo di quanto comunemente ritenuto. Il ritratto di Hu come una specie di “presidente ad interim” in un’era di stagnazione ha interessanti somiglianze con il modo in cui Gorbaciov e i suoi alleati ritrassero l’Unione Sovietica come prossima al collasso prima del 1985: entrambe le narrazioni hanno un chiaro obiettivo politico. Detto questo, penso che la sensazione condivisa da molti che il partito non avesse agito in modo abbastanza aggressivo da arrestare il declino fosse reale.

Da quando è diventato presidente, Xi ha sconfitto i suoi principali avversari e collocato alleati nelle posizioni chiave. Che fine hanno fatto le vecchie fazioni politiche all’interno del Partito? Ha ancora senso parlare della cricca di Shanghai, dei Tuanpai e dei principini?
Ho sempre pensato che i sinologi abbiano enfatizzato eccessivamente il significato delle “fazioni” nella politica cinese. Le persone non si dividono facilmente in gruppi definiti, perché le relazioni sono modellate da legami professionali, opinioni personali, interessi burocratici e temperamento personale. Aspetti che spesso non sono allineati tra loro. Ma soprattutto, il partito vede come un tabù la formazione di gruppi coesi a causa delle implicazioni potenzialmente destabilizzanti. Ciò non significa che nel partito non ci siano orientamenti politici o che non possano emergere nuovi raggruppamenti. Ma l’idea delle “fazioni” rischia di confondere anziché fare chiarezza. Hai citato i “principini”. Questo è un buon esempio. I “principi rossi” hanno infatti molte somiglianze interessanti, in particolare molti di loro condividono la convinzione di avere un ruolo speciale. Sentono di dover passare il testimone della rivoluzione a una nuova generazione. Eppure, molti di loro sono insoddisfatti del modo in cui Xi Jinping – un principino lui stesso – sta guidando il partito. All’interno del gruppo, poi, alcuni sostengono il costituzionalismo, mentre altri vedono i cosiddetti “valori universali” come una minaccia. Probabilmente il risultato più importante che Xi ha raggiunto è quello di aver eliminato la “politica degli anziani” (cioè i suoi predecessori), oltre ad essersi affermato come “nucleo” del partito, sia formalmente che informalmente.

Secondo diversi analisti, Xi starebbe cercando di cancellare l’eredità politica di Deng Xiaoping, perché è a lui che si deve lo smantellamento del culto della personalità, la regolamentazione delle cariche e la separazione tra Partito e Stato. E’ corretta come analisi?
Quanto emerso dagli studi più recenti dimostra che la visione di Deng come l’artefice delle limitazioni al sistema del “one-man rule” è stata sopravvalutata. Deng credeva fermamente che la principale forza del Pcc fosse proprio l’avere un leader in grado di far rispettare le decisioni. Certamente, figure come [gli ex segretari del partito] Zhao Ziyang e Hu Yaobang occasionalmente hanno avuto spazio per imprimere le proprie opinioni. Ma è stato in gran parte perché hanno interpretato male quanto margine avevano a disposizione. Tant’è che Deng li ha rimossi dai loro incarichi. Quanto a Xi, in realtà non penso che voglia “cancellare” l’eredità politica di Deng Xiaoping. In generale, mi è parso piuttosto cauto nel maneggiare la storia del partito. E ha esplicitamente affermato che né i primi trent’anni dalla fondazione della Repubblica popolare, né i successivi trenta – che includono l’era di Deng – devono essere respinti.

Che ruolo riveste la figura di Mao nella Cina di Xi Jinping? Diversi attivisti maoisti sono stati arrestati poco prima del centenario.
Xi Jinping ha più volte denunciato la Rivoluzione Culturale. Anche i resoconti agiografici del periodo in cui da giovane il leader fu rieducato nelle campagne dello Shaanxi forniscono una conferma di come l’esperienza lo abbia spinto a scartare le politiche utopistiche e radicali. Tutta la sua famiglia ha sofferto in quegli anni. Una sorellastra è persino morta. Probabilmente, la sua ossessione per il caos è inseparabile da ciò che ha visto durante la tarda era maoista. Allo stesso tempo, Xi chiaramente non ha rifiutato Mao. Delle sofferenze patite da suo padre, apparentemente, incolpa Kang Sheng [“consigliere” del Gruppo per la Rivoluzione Culturale], non il defunto presidente. Inoltre, le fasi precedenti della carriera di Mao continuano a costituire fonte di orgoglio per il partito. Ma, cosa più importante, Xi crede che abbandonare Mao incrinerebbe la fiducia nella missione del partito. Rifiutare Mao significherebbe rifiutare la rivoluzione.
Bisogna anche ricordare che la decisione sulla storia del partito (formulata nel 1981), non ha mai rinnegato completamente Mao. Molti dell’élite di alto rango volevano un verdetto più negativo, ma Deng si oppose all’idea. Ha così proceduto a governare lui stesso come “uomo forte”, non attraverso la leadership collettiva. Quindi, da questo punto di vista, la rottura con Mao durante l’era Deng non dovrebbe essere sopravvalutata. Il cambiamento più consequenziale subito dopo Mao è stato quello di passare esplicitamente dalla lotta di classe alla modernizzazione socialista. Ora, la leadership del partito sta cercando di capire come bilanciare meglio l’economia con la politica. Alcuni credono che occorra parlare di più di “lotta”, mentre altri pensano che il periodo tra il 1957 e il 1976 sia un caso di studio per capire le ragioni del fallimento di quel tipo di politica e ritengono che il partito dovrebbe continuare a concentrarsi sullo sviluppo.