Laurence Anyways e il desiderio di una donna, il suo terzo lungometraggio presentato a Cannes 2012 arrivato solo in questi giorni nelle sale italiane, è il film che ha messo d’accordo tutti coloro i quali erano usciti irritati dai (due) precedenti film di Xavier Dolan. Perché alla fine delle tre ore, anche al più ostile dei detrattori, la storia di Laurence messa in scena da Dolan ha strappato almeno un «comunque…». Come mai? Proviamo a ricapitolare. Dolan racconta i primi «dieci anni» di una donna che, nei trentacinque precedenti, era stata un uomo. Si tratta dunque di un nuovo inizio. Più volte, con la disinvoltura e la sfrontatezza che, comunque, lo caratterizzano, Dolan non esita a tirare fuori la metafora della farfalla, che vola via dalla bocca di Laurence quando Fred, la donna con cui vive, gli confessa che è innamorata di un altro uomo. E che era stata la scusa del loro incontro, diversi anni prima, sul set di un film, prima che Laurence diventasse donna.

Dolan racconta questo «nuovo inizio» sia come un processo lineare e cronologico, ovvero come un romanzo di trans-formazione. Ma fa anche il contrario. Tutto il film è come incastrato all’interno di un’intervista che Laurence, oramai divenuta una donna matura e una scrittrice affermata, rilascia ad una giornalista al momento della pubblicazione di un suo libro. A sua volta, il libro oggetto dell’intervista non è altro che la storia dei dieci anni in cui Laurence ha conquistato pienamente se stessa, ma ha perso Fred.

Tre livelli dunque. Nel primo, la narrazione, che avanza. Nel secondo l’intervista, che ricorda e rielabora e nel terzo, la letteratura, che sublima i due precedenti. L’unione di questi tre tempi è ovviamente il tempo ritrovato di cui, Laurence, quando era ancora un professore di lettere e un uomo, non esitava a prendersi gioco: «300 pagine per dire che Tizio incula Caio». Nella stessa lezione, che apre il film, Laurence poneva un problema filosofico: esiste una letteratura tanto grandiosa da farsi perdonare di alimentare il rifiuto e l’ostracismo di cui sono vittime le persone diverse? Ma il tema del film è una sfida opposta, esiste un film tanto grande da farsi perdonare il disgusto che esso stesso genera verso le persone normali?

Comunque sia, è impressionante che un ragazzo di 23 anni abbia la forza e l’esperienza necessarie a riflettere sul senso della vita in questa maniera. Vale a dire come qualcuno che, avendo già vissuto tutto, si concede il tempo di ripensare il proprio passato. E in Dolan questa strana maturità prende la forma di una decrepitezza e la tonalità di una nostalgia. Decrepitezza dei volti degli attori, giovani ma già segnati dalle troppe sigarette, dalle troppe liti, risa e pianti.

Nostalgia dell’epoca, gli ultimi decenni del secolo scorso, che Dolan mette in scena con sfarzo crepuscolare e tono eroico, come se quel periodo appartenesse a un passato già remoto. Quelli che c’erano faranno fatica a ritrovarsi nel ritratto mitico di un’epoca che in genere sembra più una parentesi che un vero e proprio decennio. Eppure, nel trasformare quell’epoca in un’epica, il nostro Dolan non necessita altro che degli stessi oggetti di scena che bastano a Laurence per immaginarsi farfallina: un po’ di trucco, qualche parrucca, un tailleur…Non a torto, in un articolo apparso su Telarama al momento dell’uscita francese, Frédéric Strauss proponeva un parallelo con il film di Pollack The Way we were (Come eravamo). Fiction di sinistra con Robert Redford e Barbra Streisand. Un vero e proprio film retrò: dichiarato già dal titolo. Vero, ma è solo una parte del tutto; perché questo rapporto romantico con vecchi maestri, in Dolan, vive in simbiosi con un contenuto e una forma del tutto libera dall’ingombro passato. Ed è questo che rende Laurence comunque un’opera interessante.

E soprattutto un film non-francese. Sia nella lingua: la parlata québecoise – misto di vecchio e nuovo: di francese arcaico e di americano. Sia nel modo di rapportarsi alla storia del cinema. Dolan sembra conoscere il cinema francese intimamente. Ma quello che per molti cineasti transalpini è un ostacolo, un campo minato seminato di divieti , per Dolan è una festa, dove ritrovarsi con vecchi amici della Nouvelle vague, come fossero suoi contemporanei: Garrel, Godard.

Questa grande libertà sembrava nei film precedenti essere al servizio dell’eccesso. Sia in J’ai tué ma mère che ne gli , il volume era talmente alto che non si riusciva a capire nulla se non l’affermazione: faccio quello che voglio. Qui la libertà di stile non è solo stile e non è solo libertà. È anche una disciplina e ha uno scopo. Dolan si inventa una forma di cinema da cui l’anormalità ritrovata guarda la normalità con occhio compassionevole.