Il cibo ha un’anima e anche gli antropologi più fortemente ancorati all’immanente sono costretti ad ammetterlo. Come non esistono società senza linguaggio, possiamo dirlo con certezza, non esistono culture che non abbiano tradizioni culinarie che concorrono in maniera sostanziale a informare pratiche, saperi e tradizioni, in sintesi, l’identità di chi le pone in essere. Siamo quello che mangiamo e, specularmente, ciò di cui ci nutriamo parla di noi delimitando sensi di appartenenza, gusti e gesti condivisi.

Mangiare, a ben vedere, è l’atto più importante della vita umana, ciò che genera l’esistenza stessa e che altresì testimonia la nostra dipendenza dall’altro: nel neonato che cerca istintivamente il capezzolo della madre a pochi minuti dalla nascita osserviamo l’essenza intrinsecamente eteroriferita della dialettica del ricevere-dare nutrimento. Proprio per tale carattere «squisitamente» culturale, il cibo e l’alimentazione sono sempre stati temi prediletti dell’antropologia e ricerca etnografica.

Si tratta di una vera e propria etnografia, anche se racchiusa nelle vesti del romanzo – una sorta di etnografia postmoderna in cui impalpabili sono i confini tra veridicità e fiction, tra resoconto e racconto -, il recente testo del giovane Fabio Forma  Carne da demolizione (Graffi, 2013). È un’indagine etnografica sui generis sì, ma non per questo meno efficace nel riportarci la realtà degli impianti di macellazione, poiché nata dall’esperienza personale dell’autore, che, fresco laureato all’Università di Comunicazione di Milano, viene catapultato attraverso uno sbalzo spazio-temporale (dalla capitale meneghina all’entroterra sardo) in un frigo-macello dove gli si appalesa tragicamente agli occhi la provenienza del cibo che ci nutre, il cibo che siamo.

L’esperienza di Forma, seppur sotto altre vesti, richiama quelle che sul medesimo argomento, si stanno conducendo in molte parti d’Europa: la sociologa Helena Pedersen nei macelli svedesi dove indaga le relazioni tra educazione e formazione del personale addetto allo «smontaggio di animali» e l’etnografia Every Twelve Seconds. Industrialized Slaughter and the Politics of Sight (University of Yale Press, 2011) dall’antropologo Timothy Pachirat condotta sotto mentite spoglie in un mattatoio del Nebraska. Uno dei fili conduttori di tali esperienze sembra celarsi nella contrapposizione tra ciò che è visibile da ciò che non lo è: affinché gli esseri viventi diventino cibo per le bocche umane, necessitano di un passaggio obbligato nei luoghi «dell’invisibile» ai quali ogni sguardo esterno è precluso. E in tal senso, che nutrirsi di animali rappresentasse una problematicità di non facile risoluzione se ne era già accorta anche l’antropologia, per così dire, «classica».

Pensiamo alle analisi di Radcliffe-Brown presso gli Andamani dell’oceano indiano, dove, negli anni quaranta, l’antropologo inglese pose in evidenza come il cibo animale costituisse focolaio di tabù per antonomasia, tanto da sentenziare: «mangiare è pericoloso». Cibarsi di animali dalle grandi dimensioni e dalle sembianze antropomorfe, in queste popolazioni era ricettacolo di tabù poiché tali esseri condividevano con gli umani caratteristiche di soggettività e dell’agire.

Anche gli studi del compatriota Edmund Leach, condotti qualche decennio successivo tra i Kachin birmani illustrarono come i tabù alimentari, inseriti nel più ampio sistema di quelli connessi alla sessualità, seguissero una logica di «distanziamento da Ego», per cui i pets e gli animali selvatici divengono inedibili in quanto troppo vicini, nel caso degli animali domestici, o troppo lontani per quelli selvatici dalla sfera del sé.

Infine, anche l’antropologa Mary Douglas tra i Lele del Kasai (Congo) osservò come la pratica alimentare seguisse una vera e propria grammatologia, non si potevano mangiare «animali bambini» (cuccioli), i predatori le cui abilità e destrezza potevano competere con quelle del guerriero e gli animali che si nutrivano di rifiuti. Tale classificazione, che si snodava attorno all’antinomia uomo-animale, osservò Douglas, andava a strutturare tra i Lele le relazioni all’interno dei membri della società (donne dedite all’allevamento, uomini alla caccia, e così via) sottolineando ancora una volta il nesso profondo tra cibo (in questo caso animale), antropopoiesi intesa come costruzione del sé e, in questo caso, koino-poiesi ovvero costruzione di reti sociali (la comunità).

Nel panorama italiano contemporanea, tra gli altri, è l’antropologa Alessandra Guigoni che si occupa con le proprie ricerche di tematiche annesse all’alimentazione evidenziandone la centralità per qualsiasi ricognizione che si voglia occupare delle dinamiche della percezione identitaria. Guigoni in Antropologia del mangiare e del bere (Altravista, 2009) compie un’affascinante etnografia dello svezzamento in Italia con richiami ai topoi classici dell’antropologia, un divenir mangiando che evidenzia il ruolo peculiare della madre nel formare il gusto del bambino.

Lo svezzamento lungi dall’essere un fatto naturale, è un condensato di pratiche simboliche, storiche e sociali custodite e trasmesse oralmente attraverso un linguaggio proprio delle/per le donne. Se è emerso allora come l’alimentazione vada a concorrere alla costituzione dell’identità e a ciò che percepiamo come «tradizione» è altresì vero che dinanzi a quest’ultimo concetto oggi gli antropologi guardano con sospetto.

Fin troppo abusato nella sua fittizia – si conceda il gioco di parole – traduzione, ossia di realtà immobile e incontrastabile della veridicità del «ciò che si è sempre fatto», la tradizione, anche quella culinaria, al contrario si trasforma dinamicamente selezionando quei contenuti che la società fa propri poiché evoluti assieme alla sensibilità di chi la pratica.

In tal senso, l’opera di «disvelamento» che etnografie come quella di Fabio Forma stanno compiendo all’interno dei non-luoghi dediti alla produzione di bistecche e fettine, appaiono come grimaldelli abili nello scardinare le serrature delle abitudini più conservatrici. Il cibo ha un’anima che piange e che spera e non solo secondo un richiamo filosofico/metaforico. A ridosso delle festività in cui, da un capo all’altro della penisola, faremo sfoggio di tavole imbandite di luculliane prelibatezze (la rinomata tradizione culinaria italiana), rivisitare i propri menù così come ci consiglia di fare ad esempio la chef vegetariana Nives Arosio ne La cucina etica regionale (Sonda 2012) non pare poi così azzardato né tanto meno coraggioso. Mi sembra più che altro un gesto semplice per una tradizione che evolve e che sceglie con consapevolezza di guardare al proprio futuro.