L’undici settembre per la politica catalana è un appuntamento cerchiato in rosso. È la celebrazione della Diada, la festa nazionale catalana, che ricorda – paradossalmente – la più grande sconfitta agli occhi del nazionalismo: quella contro le truppe del borbonico Filippo V. Barcellona infatti durante la lunga guerra di successione era rimasta più o meno fedele a Carlo d’Asburgo, l’altro pretendente al trono dopo la morte nel 1700 di Carlo II (detto “lo stregato” per il suo aspetto non proprio vispo a cause delle numerose malattie genetiche dovute alla consanguineità, e che infatti lo lasciarono sterile). L’11 settembre del 1714 Barcellona capitolò: Filippo, una volta consolidatosi sul trono, impose condizioni durissime a quello che era stato il regno d’Aragona, privando progressivamente tutti i suoi territori di alcuni privilegi amministrativi e istituzioni “decentralizzate” che avevano mantenuto negli anni.

LA MITIZZAZIONE di questa data inizia solo con gli scrittori e gli intellettuali della cosiddetta Renaixença, un periodo verso la metà dell’Ottocento in cui cominciò il recupero della storiografia, della cultura e delle tradizioni catalane, e soprattutto del catalano, di cui si iniziarono a fissare regole e grammatica. La lingua, che aveva perso il suo status di lingua ufficiale proprio con l’arrivo dei Borboni al potere, ormai non era più parlata dalla classe borghese. Fu in questo periodo, che nell’ambito dell’architettura coincide con il cosiddetto modernismo catalano, che si iniziano a rimettere in nuova luce eventi storici, come appunto quell’infausto 11 settembre, dove però all’esaltazione romantica delle gesta dei valorosi difensori della città di Barcellona non corrisponde un’accurata analisi storica dei fatti (che sarebbe ben più prosaica).

LA CELEBRAZIONE di questo anniversario era stata più o meno sporadica, fino a che la dittatura di Primo de Rivera (tra il 1923 e il 1930) l’aveva proibita del tutto. Fu sotto la Repubblica, e la rinascita del catalanismo, che iniziò a essere celebrata, per poi essere di nuovo proibita durante i 40 anni di franchismo, assieme alla lingua catalana. La prima vera grande Diada fu quella del 1977, due anni dopo la morte di Franco e un anno prima dell’avvento della democrazia: «libertà, amnistia e statuto di autonomia» fu il grido di quella storica manifestazione. Il rinato parlamento catalano fissò questa data nel 1980 come festa nazionale. Ma fino al 2004, con il presidente socialista Maragall, a parte il tradizionale discorso del presidente catalano, era stata una celebrazione poco più che di circostanza, con qualche piccola manifestazione di carattere indipendentista. Fu Maragall, alla guida di un tripartito di sinistra, che volle rendere la celebrazione più solenne e civile (fino ad allora era stata soprattutto religiosa), coinvolgendo i partiti che condividevano uno spirito catalanista, cioè quasi tutti.

LA DATA COMINCIA a diventare incandescente politicamente solo nel 2012, sotto il presidente Artur Mas, che cavalcò il nazionalismo catalano (fu lui a organizzare il primo referendum simbolico nel 2014). L’appuntamento diede ali a manifestazioni che iniziarono a essere sempre più massicce e coreografiche.

A DUE ANNI dal referendum del 2017, con i leader indipendentisti in esilio o in carcere in attesa di sentenza, la Diada di oggi sarà meno epica di quella dell’anno passato, che agglutinava lo spirito indipendentista con la richiesta di liberazione dei prigionieri politici (simbolizzata dagli ormai ubiqui laccetti gialli, più comuni ormai delle estelades, le bandiere catalane sormontate da stella su fondo blu, simbolo indipendentista). Oggi i due principali partiti indipendentisti, Esquerra Republicana e PdCat, soci del governo catalano, si guardano in cagnesco, divisi sulla strategia da seguire: più pragmatica la sinistra di Esquerra, il cui leader Junqueras è in carcere, e in attesa della decisione dell’Europarlamento se considerare o no l’immunità pur essendogli stato impedito dai giudici di giurare per assumere l’euroscranno; più confusa quella del Pdcat, incerti sulla strategia del leader esiliato Puigdemont e in netto calo in quanto a voti).

La stessa Esquerra ha chiarito a Pedro Sánchez che oggi possono appoggiare la sua investitura, dopo la sentenza sugli indipendentisti in carcere probabilmente no; il PdCat voterà contro. Anche le due associazioni indipendentiste che organizzano le manifestazioni sono divise: Òmnium cultural, il cui presidente è pure in carcere, più rivendicativa socialmente ma meno rigida politicamente; l’Anc invece è ferma alla posizione dell’unilateralismo (la stessa che fallì subito dopo il referendum). Le strade si riempiranno anche oggi, ma – complice il maltempo e la disillusione di molti – molto meno del solito.

L’eterno dilemma della politica catalana – appoggiare Madrid e i Borbone per ottenerne benefici politici, o lottare per andare in un’altra direzione – torna a proporsi anche oggi. Nel cuore di molti continua a esserci la repubblica catalana. Anche il Filippo sul trono oggi si è guadagnato l’odio dei catalani per aver giustificato il giorno dopo il referendum del 2017 le manganellate sugli inermi votanti. Ma i leader politici catalani non riescono più a catalizzare i sentimenti dei 2 milioni che sognano l’indipendenza.