Il discorso di Napolitano è tutto quello che ci si poteva aspettare in un commiato dopo nove anni difficili. Va dal ricordo al monito, all’auspicio. Non mancano i toni crepuscolari.

Non stupisce cogliere una ferma difesa delle proprie scelte, soprattutto quelle fatte nel passaggio alla XVII legislatura nel 2013. In sostanza, ribadisce l’appoggio al governo Renzi, quasi a certificarne conclusivamente e senza possibilità di prova contraria la natura di «governo del Presidente». Gli argomenti sono noti.

L’esigenza preminente di stabilità, l’immagine internazionale dell’Italia, l’impellente necessità di un contrasto efficace alla crisi. Si potevano perseguire i medesimi obiettivi con scelte diverse? Ad esempio mandando Bersani in Parlamento a cercare una maggioranza per la fiducia, tornando alle urne in caso avesse fallito? Forse. È stata una lettura della situazione politica e istituzionale sostanzialmente non dissimile da quella che, con il supporto di Napolitano, aveva suggerito di ritardare il voto sulla mozione di sfiducia contro Berlusconi, quel tanto che bastò al cavaliere per riguadagnare con nobili argomenti la manciata di voti necessaria a resistere (Camera dei deputati, 14 dicembre 2010, 314 no e 311 sì). Fu giusto, o sbagliato? Scelte opinabili, e tuttavia non incompatibili con la lettura – familiare ai costituzionalisti – del ruolo del presidente come motore istituzionale nei momenti di crisi.

Quel che invece può far discutere davvero è la difesa nel merito, e persino nel dettaglio, delle scelte politiche poi fatte dal governo. Un apprezzamento non indispensabile. Volendo farlo, si dovrebbe guardare a tutti i risvolti, positivi e negativi. Così – dice Napolitano – l’Italia ha colto l’opportunità del semestre di presidenza del Consiglio per sollecitare un cambiamento nelle politiche dell’Unione. Ma vogliamo anche dire che i risultati sono scarsi o nulli? Apprezza il superamento del bicameralismo paritario. Ma non è forse vero che l’opposizione è stata ed è volta non al superamento del bicameralismo perfetto, ma alla sostituzione del senato con un’assemblea non elettiva imbottita del peggior ceto politico del paese? Una nuova legge elettorale è un passaggio ineludibile. Ma conta o no che in punti molteplici la proposta in campo sia chiaramente elusiva dei principi stabiliti dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1/2014? E il necessario più vasto programma di riforme istituzionali e socio-economiche messo in cantiere dal governo comprende senza alternative il Jobs Act nella formulazione conclusivamente approvata e realizzata nei decreti delegati, o potrebbe avere avuto o avere una diversa declinazione? E infine, il dubbio principale: si può affidare un carico così pesante – e in specie una radicale riforma della Costituzione – a istituzioni geneticamente distorte da una legge elettorale incostituzionale, a una maggioranza che è tale proprio per norme incompatibili con la Carta fondamentale? E dunque a una maggioranza che soddisfa forse criteri di legittimità formale, ma non di legittimazione sostanziale?

Tutto questo non compare nel discorso del Capo dello Stato. Dovrebbe? Sì, quanto meno per cenni. Soprattutto considerando che per lo stesso Napolitano il «senso della Costituzione» è una stella polare che va seguita per risanare e rilanciare il paese.

Ma cosa è il «senso della Costituzione»? Forse qualche costituzionalista storcerà il naso, perché non è giustiziabile, e dunque tamquam non esset. Ma noi concordiamo con Napolitano. Il «senso della Costituzione» esiste, e dovrebbe anzitutto orientare la politica e le istituzioni. Non è dato dal dettaglio del dettato normativo, ma dal messaggio che la Costituzione complessivamente dà. Che è un messaggio non legato al tempo in cui è stata scritta, ma ha ad oggetto piuttosto il futuro, il modo di essere del paese e delle donne e uomini che in esso vivono. Ed è – a nostro avviso – un messaggio di solidarietà, di diritti, di eguaglianza, di condivisione, di partecipazione democratica, di apertura e di rappresentatività della politica e delle istituzioni. Un messaggio che non è fatto di articoli e commi, ma di un animo personale e collettivo. E che ci orienta nella lettura di quel che accade intorno a noi e nei nostri comportamenti pubblici e privati, individuali e collettivi.

Non è dubbio che nel «senso della Costituzione» ci sia tutto il necessario per dare risposta ai problemi di oggi, per quanto pressanti: dalla crisi economica alla corruzione, alla riqualificazione della politica, all’orgoglio di essere nazione. Ma altrettanto non è dubbio che il senso della Costituzione non sembra affatto ispirare l’azione del governo, e le scelte della maggioranza in parlamento. Al contrario, come abbiamo ripetutamente argomentato. Del resto, non è un caso che la Costituzione non compaia nel fiorito eloquio del premier, che pure del parlare s’intende, e molto. E che sia piuttosto parola d’ordine di quanti gufano.

Di tutto questo avremmo voluto sentire nel discorso di Napolitano. Non avrebbe – a nostro avviso – indebolito la difesa delle sue scelte fondamentali e della sua presidenza. L’avrebbe invece rafforzata. Perché la Costituzione è l’anima di un paese. E un paese che non crede nella sua Costituzione è un paese senz’anima.