Ad accogliere il visitatore all’ingresso di «Musiche» di Lelli e Masotti c’è uno degli ingrandimenti su pannelli di grande formato di alcune delle foto in mostra: è uno scatto di una performance della francese Compagnie Lubat, che fissa in maniera icastica lo spirito delle turbolente sedizioni musical-circensi della indimenticata formazione di improvvisatori-guastatori. La foto è stata presa nell’82 proprio lì sotto, in piazza del Duomo, e sullo sfondo c’è, scenografica, la Galleria che ci si è appena lasciati alle spalle entrando a Palazzo Reale. Non avrebbe potuto esserci modo migliore per dare in apertura il senso del tempo, dei luoghi, dei contesti reali delle musiche che nelle centodieci stampe in bianco e nero di Lelli e Masotti sono sempre musiche in azione: in concerto, nelle prove, nel momento della ricerca, dell’elaborazione, ma sempre nel loro farsi.

E NELLA FOTO della Compagnie Lubat si trovano riassunti molti dei motivi che ricorrono in questo florilegio di immagini raccolte fra la prima metà degli anni settanta e oggi: il senso del coinvolgimento che la musica esercita dal vivo, quali che siano le forme in cui si esprime; la musica come qualcosa che si incarna in una corporeità; l’attenzione per la situazione, che la cornice sia un tempio della lirica o la strada; e il pubblico.
Lelli e Masotti è la sigla adottata nel ’79 da Silvia Lelli e Roberto Masotti per la loro collaborazione con il Teatro alla Scala, di cui sono stati fotografi ufficiali per diciassette anni. Nati a Ravenna, dove si sono conosciuti, hanno studiato a Firenze e alla fine degli anni sessanta hanno cominciato a frequentare Milano, dove si sono trasferiti nel ’74, dedicandosi alla foto di musica e spettacolo: Silvia Lelli più orientata alla danza, al teatro, alla musica classica e operistica, Roberto Masotti al jazz, alla musica improvvisata, alle forme non convenzionali di musica contemporanea (è da poco uscito il suo volume Jazz Area, pubblicato da seipersei). Nell’arco di cinquant’anni hanno seguito un ventaglio di musiche di straordinaria apertura, e anche nella fase del lavoro con la Scala non hanno smesso di seguire gli altri ambiti che li sollecitavano: il fatto di passare (magari nell’arco della stessa giornata) dalla classica o dall’opera a musiche e spettacoli di tutt’altro tipo – il percorso della mostra significativamente mescola i generi – è stato per loro addirittura uno stimolo costante, da cui entrambi i piani della loro attività sono stati corroborati.

OLTRE A FIGURE che Lelli e Masotti hanno documentato con particolare ampiezza come Demetrio Stratos, John Cage, Keith Jarrett, in mostra si va da Sergiu Celibidache a Nusrat Fateh Ali Khan, da Mauricio Kagel a John Lee Hooker, da un Falstaff regia di Strehler ad un concerto di koto e danza giapponese (il loro archivio, 400 mila immagini, nel 2018 è stato dichiarato dal Ministero per i Beni culturali «bene di interesse storico»).
Formidabili gli scatti che mostrano gli aspetti performativi e scenici dell’improvvisazione radicale e delle avanguardie eterodosse: emblematici un Juan Hidalgo bendato dalla testa alle caviglie per eseguire nel ’75 un pezzo di Walter Marchetti che prevede un pianoforte anch’esso debitamente acconciato; o uno Steve Beresford che nel ’78 il pianoforte lo suona a piedi nudi, per di più rovesciato all’indietro, tenendosi in equilibrio con le mani appoggiate per terra e le ginocchia sul seggiolino.

COSÌ COME splendide tante foto realizzate alla Scala: Petrassi che da un palco segue l’esecuzione di un proprio lavoro diretto da Muti; Horowitz che tenendo un mazzo di garofani lascia sorridente il piano alla fine di un’esibizione. E molte le foto che condensano in un’immagine anche esteticamente perfetta un personaggio o un momento. Come i leggii e gli strumenti sul palco, e, dietro, una muraglia di spettatori assiepati sugli spalti del Palasport di Milano, nel ’78, per ascoltare l’orchestra della Scala diretta da Abbado: tutta un’epoca e un’idea di democratizzazione dell’accesso alla musica.

O NELLO STESSO ANNO, a Berlino, due capiscuola dell’improvvisazione radicale in una performance ad una mostra su Majakovskij: Peter Brotzmann soffia nel sax, Han Bennink fa rotolare per terra dei piatti di batteria e grida in un megafono, e alle loro spalle immagini del poeta russo, in una sorta di simbolica genealogia di agitatori artistici. O ancora Pollini ripreso dall’alto, con in vista il meccanismo interno del piano, che da quella prospettiva sembra quasi un’opera d’arte contemporanea e pare una rappresentazione visiva della lucidità, della razionalità del pianista. A cura di Marco Pierini, presentata da Comune di Milano – Cultura e Palazzo Reale in occasione della terza edizione di Photo Week, Musiche rimane aperta fino al 23 giugno (ingresso gratuito).