La letteratura è un fantasma. Un potere intangibile, suggerì Umberto Eco a Mantova quasi venti anni fa. Se leggiamo e ricordiamo non è solo perché esistiamo, ma perché conserviamo dell’esistenza consapevolezza e contezza narrative. La vita e la fiction condividono in definitiva un’essenza comune: essere percepite come su un canovaccio stropicciato, e incarnare rielaborazioni infinite di quello stesso straccio di testo. Eppure, come spiega Fabrizio Scrivano in Oggi il racconto. Come resistere alla banalità dell’informazione (Meltemi, pp. 123, euro 15), esiste sempre «l’idea che una storia possa essere identificata non con quel che racconta, cioè i fatti e gli eventi, ma con la coerenza e l’opportunità con cui questi eventi e fatti sono in relazione». In definitiva, è assai plausibile che «il senso della narrazione sia propriamente il senso del narrare». Una narrazione infinita, che corrisponde con il vivere. Siamo esseri narranti: viviamo, e moriamo, di storie. Ma la fine della vita e la fine di un libro non sembrano semplici fini. Conducono al termine, all’ultima fermata, soltanto quell’oggetto-soggetto che esse investono, e non quanti attorno vi gravitano.

E SE PER RISVEGLIARE i morti basta agire mnemonicamente, per riaprire la storia di un libro non dobbiamo che rimetterlo in circolazione. Parlarne, rileggerlo. Riesumarne la vita, fittizia o reale che sia. Perché poi, dice ancora Scrivano, «la differenza tra cronaca e narrazione è semplice. La narrazione si avvale di una temporalità che tende a formare degli eventi compiuti, e comunque cerca di mantenere viva l’attesa del compiersi degli eventi, come se fosse diretta verso un finale. La cronaca, invece, si produce in assenza di qualsiasi compiutezza». Il raccontare intesse il vero e l’immaginato in una tela che deve suscitare attenzione, e per farlo, per non morire, non può rischiare di apparire falsa o falsata. È forse, questa, la lezione più importante di un genere immortale come il romanzo; e nello specifico del novel inglese, quello della narrazione realista, caratterizzata, come ricorda Riccardo Capoferro nel suo Novel. La genesi del romanzo moderno nell’Inghilterra del Settecento (Carocci, pp. 271, euro 24), dai tre piani della probabilità, della verosimiglianza e dell’unità. Piani che giungono a formare un paradigma ineludibile, incarnato nell’ossatura stessa da cui nasce il novel. Sono tratti tipici della cultura protestante «contraddistinta da una spiccata attenzione nei confronti della formazione morale, che comportava, sul piano testuale, una forte coesione tematica e psicologica, e una tensione verso l’esperienza concreta».

MA LO STUDIOSO avverte che «paradossalmente, l’apparato sul quale si basa l’immersione nei mondi del realismo si vede al meglio nella costellazione di generi riconducibili alla categoria del fantastico». Questo anche perché il narrare rimane sempre uno spazio della ricreazione: appartiene di diritto alla magia del rappresentativo, e lo fa proprio per scongiurare la sua, e la nostra fine; per dilazionare il momento della dipartita. Il letterario come strategia di dislocamento, di spostamento più in là del confine del vivere. Non a caso nella sua rielaborazione del citato intervento mantovano, Umberto Eco ammoniva che tra le funzioni più importanti della letteratura c’è quella di metterci di fronte alla dicotomia destino-morte; e le storie dei libri sanno davvero insegnarci come morire, e come rivivere. Quelle storie, siano esse riferibili a eventi veri, reali, o inventati, tramite la lettura ricevono continuamente nuova linfa vitale, e si materializzano in un’interiorità che ne ripropone nuove riscritture mentali.

UN FANTASMA è, per Joyce, qualcuno che è «svanito nell’impalpabilità attraverso la morte, l’assenza, o un cambiamento di modi». Esattamente come la letteratura, che per via della sua natura spettrale sa cambiare modi, oscurarsi, sparire: ma non può morire, essendo condannata, alla stregua del raccontare, ad errare, e dunque a vivere in eterno.