Sei mesi fa il Pd faceva fuoco e fiamme contro il presidente della commissione affari costituzionali in senato, l’alfaniano Salvatore Torrisi eletto a sorpresa (voto segreto) contro il candidato di Renzi. Per il partito democratico – che chiese addirittura un incontro a Mattarella e Gentiloni, minacciando la crisi – quell’assegnazione imprevista di una casella cruciale per le riforme era la prova che «vince la palude e non si vuole cambiare la legge elettorale». Da oggi, invece, è proprio il Pd ad affidarsi a Torrisi per un passaggio rapido in commissione e una rapiddisima approvazione in aula del «Rosatellum». Entro la fine della prossima settimana.
I tempi li deciderà oggi la conferenza dei capigruppo di palazzo Madama. Il calendario che ha in testa Renzi prevede una settimana di lavori in commissione (questa) e tre giorni di discussione in aula (dal 24 al 27 ottobre), e soprattutto nessuna modifica al testo. Fondamentale è chiudere prima dell’inizio della sessione di bilancio (ai primi di novembre) e prima che il risultato delle elezioni siciliane possa dare coraggio a quei tanti parlamentari del Pd che continuano a considerare la nuova legge elettorale un suicidio per il partito. E per molti ri-candidati democratici.
Per fare presto, dunque, e non per battere i franchi tiratori che al senato hanno vita grama (c’è il voto segreto solo sugli emendamenti che riguardano le minoranze linguistiche), il Pd chiederà al governo di mettere ancora la fiducia. Mossa che costringerebbe Forza Italia e Lega a non partecipare alla conta ed esporrebbe la maggioranza a non raggiungere il minimo legale (che è di 161 senatori; Pd, Ap, Autonomie e senatori fuori dai gruppi si fermano poco sotto e hanno bisogno dell’aiuto dei verdiniani). Ma anche se M5S e la sinistra decidessero di provare questa strada per fermare la legge, il Rosatellum non rischierebbe. Basterebbero dieci berlusconiani in missione, o in malattia, o disponibili a restare in aula e votare no a Gentiloni, e il numero legale sarebbe salvo.