Abbandonare il bicameralismo paritario ma mantenere l’elezione diretta dei senatori. È questa la posizione prevalente a palazzo Madama, dove ai primi di settembre cominceranno le votazioni sul disegno di legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi. Che la proposta governativa di un senato composto da consiglieri regionali e sindaci (scelti con un’elezione di secondo grado nei consigli regionali) fosse in minoranza era immaginabile, da ieri è scritto negli emendanti che i senatori hanno depositato in prima commissione. Ma tra il deposito e la votazioni c’è di mezzo la sospensione estiva. Alla ripresa bisognerà sciogliere prima di tutto il nodo dell’ammissibilità degli emendamenti per l’elezione diretta. Alla fine deciderà il presidente del senato, da qui la serie di appelli e raccomandazioni – dall’ex presidente della Repubblica Napolitano alla presidente della prima commissione Finocchiaro – che stanno accompagnando Grasso al Ferragosto.

Forza Italia, Sel, M5S, Lega, Conservatori e riformisti (il neo gruppo di Fitto) e alcuni senatori del gruppo delle autonomie hanno presentato emendamenti per il senato elettivo a suffragio universale. E più di tutti li ha presentati la minoranza Pd, con le firme di 28 senatori che se aggiungi ai circa 140 che possono mettere insieme gli altri gruppi basterebbero a superare la maggioranza assoluta (che è di 161 voti). Il governo sarebbe battuto. Calcoli complicati e probabilmente prematuri, anche perché nell’ultimo anno e mezzo – da tanto si discute della riforma – non è mai successo che un’ostilità annunciata al progetto del governo si sia poi trasformata in effettivi voti contrari, né alla camera né al senato. «Ci sono le condizioni per un’ampia intesa», è il commento a questi numeri del senatore del Pd Chiti. Che da capofila del fronte pro senato elettivo si rivolge a Renzi: «La strada da praticare è quella del dialogo, del confronto aperto e non quella di arroganti chiusure». Ma il presidente del Consiglio ha già detto: «Vedremo chi ha in numeri».
Vedremo. La strada maestra per l’esecutivo resta quella di bloccare ogni tentazione, gli emendamenti all’articolo 2 dovrebbero essere dichiarati inammissibili. Se non dovesse funzionare il pressing su Grasso, Renzi potrebbe contare sulla resurrezione del patto del Nazareno e l’appoggio (magari nella forma di qualche provvidenziale assenza) di tutta o tanta Forza Italia. Assai più che sul sostegno della pattuglia di Verdini, che sta dando prove di scarsa affidabilità (è successo sulla Rai, ma anche sul senato elettivo qualche senatore ha provato a fare di testa sua). Altrimenti c’è il «lodo» Quagliariello, un emendamento sul quale è accesa da tempo la spia dell’attenzione. L’ex ministro delle riforme, scelto all’epoca tra i «saggi» da Napolitano, sta provando a introdurre un concetto inedito: la gradazione della sovranità popolare. Sostiene cioè, l’ha detto anche ieri, che per il nuovo senato – visto che dovrà fare le leggi, anche quelle costituzionali – «si impone un collegamento con la sovranità popolare». Non l’elezione popolare, un collegamento.

In pratica la proposta è quella di dividere i candidati al consiglio regionale in due listini: quelli destinati a restare semplici consiglieri e quelli «papabili» al senato, tra i quali sceglierebbero i consiglieri. Il tutto andrebbe previsto in una legge di attuazione della riforma, rinviata a dopo l’insediamento del primo senato non eletto. Il principio dell’elezione indiretta resterebbe scolpito in Costituzione. La soluzione è assai confusa, ma consentirebbe a Renzi di recuperare voti, se non tra i 28 della minoranza Pd tra gli altri che oggi sembrano pronti a dirgli di no. Gli emendamenti dei «dissidenti» dem – bersaniani, bindiani ed ex civatiani – prevedono invece l’elezione diretta dei senatori in concomitanza con l’elezione dei consigli regionali. Possibilmente da abbinare a un taglio dei deputati (da 630 a 500). Prevedono anche un allargamento delle competenze del senato, maggiori garanzie nell’elezione del presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali, la possibilità di appellare davanti a un comitato di 5 giudici costituzionali un no del parlamento alla richiesta di autorizzazione a procedere e anche un tentativo di rendere più efficaci le iniziative di legge popolari. a. fab.