È l’ultima occasione del paese e rischiamo di perdercela. Renzi lo pensa di se stesso, o almeno lo dice, e ieri nel carosello di diapositive ha infilato una minaccia. O una promessa. Se non si fa la riforma del senato lascerà la politica. Ora, si può sospettare che se è costretto a ricatti del genere dev’essere già in difficoltà. Il modo in cui è passata la legge elettorale alla camera può confermarlo, e così il pensiero di quello che succederà al senato. Ma se mette sul piatto la sua carriera, dovrebbe avere un’idea assai precisa della riforma costituzionale. E invece no.

Il presidente del Consiglio ieri ha presentato solo una bozza di disegno di legge: non se l’è sentita di scavalcare del tutto il senato, anche sulle regole per la sua autodistruzione. Accetterà osservazioni e proposte, però solo entro i prossimi 15 giorni. La proposta che ha fatto è clamorosamente diversa da quella che si è fatto votare dalla direzione del Pd poche settimane fa. Allora era il senato quasi esclusivamente dei sindaci, adesso sarà composto per metà da consiglieri regionali e presidenti di regione. Più i sindaci, e anche gli ex sindaci, che saranno votati dagli altri sindaci della regione. Più i senatori a vita come oggi, ma moltiplicati per quattro. Tutti cooptati, nessuno eletto dai cittadini per rappresentare la nazione. Bel modo di avvicinare elettori e Palazzo.

Il buffo è che questi signori senza mandato popolare avranno funzioni pienamente legislative, su dettagli tipo la Costituzione, i trattati europei e anche le leggi che decideranno di richiamare dalla camera bassa. Questi sindaci e presidenti di regione e consiglieri regionali dovranno fare il doppio lavoro. Ma non saranno pagati per questo: è l’unica cosa che Renzi ha tenuto ferma nella sua proposta. Ed è quella che considera decisiva più di ogni dettaglio costituzionale: non pagheremo più lo stipendio ai senatori. Ovviamente il costo del funzionamento del Palazzo resterà tutto, anzi potrebbe crescere visto che i politici col doppio mandato avranno bisogno di rappresentanti fissi a Roma per seguire i dossier. Gli slogan non si occupano dei dettagli.

Naturalmente si può deridere o prendere sul serio la propensione renziana a presentare se stesso come l’ultima chance dell’Italia. E di fronte al fedelissimo Nardella – in favore del quale ha abdicato a Firenze – che alla fine della conferenza stampa di ieri ha marinettianamente paragonato il suo capo alla «scintilla», ognuno è libero di ridacchiare o preoccuparsi. Però alla corrispondenza tra la realtà e gli annunci bisogna fare la fatica di applicarsi. Ieri il Consiglio dei ministri non ha approvato un provvedimento che abbasserà l’Irpef a chi ha redditi fino a 1.500 euro netti al mese. Ha approvato una relazione di Renzi che ha spiegato che lo si potrà fare, a partire da maggio.

Ieri il presidente del Consiglio ha detto che la legge elettorale approvata dalla camera ha cinque punti di forza, e li ha scolpiti nell’apposita diapositiva. Primo: «Non più larghe intese». Non è così, perché l’Italicum si occupa solo della camera; fintanto che il senato non cambia (se e quando) il parlamento sarà eletto per metà con il sistema proporzionale, dunque le larghe intese non si possono escludere (e intanto l’accordo di Renzi con Berlusconi è fortissimo). Secondo: «Chi vince governa per 5 anni». Impossibile garantirlo, a meno di non stravolgere la Costituzione vincolando l’eletto per sempre al suo premier. L’esperienza del maggioritario dimostra il contrario: le coalizioni si sfaldano a partire dal giorno successivo alle elezioni. Terzo: «I candidati saranno legati al territorio». Non è vero, perché la lista bloccata, il riparto nazionale e il famigerato «algoritmo» consentono che col voto di un elettore calabrese venga eletto un candidato in Emilia, in una lista che magari ha preso meno voti di quella calabrese. Quarto e ultimo: «Stop al ricatto dei piccoli partiti». Falso anche questo, nasceranno anzi partiti piccolissimi per aiutare le coalizioni a raggiungere i quorum. E intanto sono stati proprio i franchi tiratori dei partiti piccoli ad aver salvato l’Italicum alla camera. In cambio hanno ottenuto di non dover raccogliere le firme.

E infine Renzi ha detto: se avessimo già abolito il bicameralismo perfetto avremmo già in vigore la nuova legge elettorale. Sarebbe una disgrazia, visto che si tratta di una legge pessima. Ma forse è solo un’altra bugia: senza la promessa di correzioni al senato anche i cuor di leone del Pd avrebbero votato contro.