Cinquant’anni di pensieri critici e voci non allineate, cinquant’anni di «eresia». Nel vero senso, però, di questa parola non sempre compresa.

Eresia deriva infatti dal greco airesis, che significa scelta.

In origine eretico è colui che sceglie, sceglie perché ama la propria libertà al punto da pagare prezzi altissimi per difenderla: dall’esclusione all’esilio, dalla prigione al martirio.

Eretico è colui che, più della verità, ama la ricerca della verità. Per l’eretico ricerca e verità, libertà e responsabilità sono inseparabili.

Questa, secondo me, è stata la preziosa funzione del manifesto in questi cinquant’anni: informare ma, al tempo stesso, far riflettere, mostrando di volta in volta l’enorme differenza tra comprensione e giudizio, conoscenza e definizione.

Un giornale irriverente, fuori dal coro, un veicolo d’inquietudine: quella sana inquietudine che viene dall’abitare le domande con radicalità, senza rimuoverle o ridurle a risposte precostituite, a quella parola facile che tutto semplifica e riporta all’ordine.

Sentinella inesausta della democrazia, il manifesto, perché senza inquietudine non c’è democrazia.

Ecco allora che mi unisco alla festa dei suoi 50 anni proponendo 5 parole, una per ciascuno dei prossimi decenni. Parole di un manifesto del futuro di cui il manifesto mi auguro possa essere, insieme a altri, veicolo e artefice.

La prima parola è rigenerazione. Non basta più parlare di «cambiamento». Gli annunciati cambiamenti sono stati il più delle volte semplici adattamenti o, peggio, mutazioni esteriori. La forma magari è cambiata ma non la sostanza. Ebbene cambiamenti di questo genere – superficiali, «cosmetici» – non ce li possiamo più permettere.

Urge, appunto, una rigenerazione. Ha ragione Papa Francesco quando dice che «peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla». Sprecarla vuol dire tornare alla normalità come se nulla fosse, facendo le cose di prima.

La seconda parola è ingiustizia. Si sente parlare spesso di «disuguaglianze». Ecco, non sono disuguaglianze: sono ingiustizie. Disuguaglianza è un concetto che indica una differenza astratta, matematica, mentre nella parola ingiustizia risuona la carne ferita, la vita offesa.

Cominciamo allora dal riconoscere che alla base di ogni disuguaglianza c’è sempre un’ingiustizia, un’inaccettabile differenza non solo quantitativa ma qualitativa. La logica quantitativa del profitto distingue tra vite di «serie A» e di «serie B», solo che le ingiustizie sono cresciute a livello tale che le seconde non sono più solo vite «retrocesse» ma espulse, scartate, dimenticate. In molti casi oppresse o soppresse. Penso ai migranti, ai giovani, ai poveri, alle minoranze prese di mira dall’ignoranza e dall’odio per il «diverso».

Terza parola: ecologia integrale. È un’espressione chiave, come noto, della Laudato sì di Papa Francesco. Con l’aggettivo «integrale» il Papa sottolinea come il ripensamento radicale del nostro rapporto con la natura debba essere esteso a tutti gli ambiti della vita, a cominciare da quello sociale e relazionale. La logica dominatrice e proprietaria del «paradigma tecnocratico» non ha infatti risparmiato le persone, a cominciare da quelle più deboli che, come la natura, soffrono senza potersi ribellare.

In questo senso è insufficiente parlare di «transizione ecologica». La crisi che stiamo vivendo non è solo sanitaria e economica ma, prima di tutto, sociale e culturale. È un collasso di civiltà. Non se ne esce senza una profonda trasformazione etica, un cambiamento del nostro rapporto col mondo, con gli altri, con noi stessi.

Perciò questa non può essere una transizione – cioè un semplice passaggio – ma, come sempre afferma Papa Francesco, una «conversione ecologica». Conversione laica, beninteso, alla portata di tutti: si tratta di rivolgere il cuore e la coscienza a un ambiente che stiamo sfruttando e saccheggiando con cieca violenza, visto che, essendone parte, la devastazione è in fin dei conti autodistruttiva.

Quarta parola: diritti. Parola quasi sparita dal lessico politico, nello specifico dalla propaganda dei fautori dell’«innovazione» e della «crescita»: parole sospette, ambigue, funzionali al mantenimento del sistema. Come se parlare di diritti sia una cosa datata, come se un certo grado d’ingiustizia sociale sia la condizione necessaria del cosiddetto sviluppo.

Quinta e ultima parola: fragilità. Se c’è una lezione di cui dobbiamo fare tesoro, usciti dall’emergenza sanitaria, è quella della fragilità. Perché la nostra fragilità non è contingente ma strutturale: fragile è la condizione umana. Ma è proprio la coscienza della fragilità a rendere forte l’essere umano. Se gli uomini non si fossero riconosciuti fragili non avrebbero sentito la necessità di unirsi in gruppi, in comunità e infine in società.

La fragilità diventa così veicolo di condivisione e corresponsabilità, cioè di giustizia. Nonché primo antidoto al virus della solitudine e alle ferite dell’esclusione.

Tanti auguri allora al manifesto per i trascorsi 50 anni e i 50 futuri, nel segno di quella fragilità che ha la forza della verità e la coerenza dell’eresia.