Amazon ha vent’anni e io sono un suo cliente. Non ricordo quale e quando sia stato il mio primo acquisto online dal colosso di Seattle ma sicuramente è avvenuto diversi anni fa e quasi certamente si è trattato di un libro che, dopotutto, è il core business dell’azienda. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti e anche nel letto del più grande fiume del mondo: Jeff Bezos battezzò la sua impresa nel lontano 1994, con l’auspicio che – come il fiume amazzonico – il suo piccolo servizio di vendite via internet potesse un giorno diventare la più grande azienda del pianeta.
Come gli altri 224 milioni di «clienti attivi» di Amazon, ho dato il mio piccolo contributo al suo progetto. Negli anni successivi ho acquistato molti libri, cd, video, attrezzature elettroniche, ricambi per la stampante, casalinghi e pentolame, anche se non mi sono ancora azzardato a fare la spesa, che pure sarebbe possibile qui in California dove è disponibile da qualche mese il nuovo servizio AmazonFresh: recapita a domicilio uova, latte, pane, magari pure la rughetta biologica e altri alimenti selezionati entro un paio d’ore dall’ordinazione.

Premi un tasto

Come milioni di altri abitanti della terra, sono un cliente almeno occasionale di Jeff Bezos che, da qualche mese, è anche diventato il mio editore. Lo scorso inverno un amico, Gordy, ha avuto l’idea di pubblicare un’«antologia del fallimento» intitolata Gen F chiedendo a una ventina di conoscenti, scrittori, freelance e giornalisti variamente sottoccupati, di contribuire con brevi fiction ispirate alla crisi strutturale del lavoro creativo. Collezionate le storie semiautobiografiche, le ha «montate» in una collezione e si è rivolto a CreateSpace la divisione di editoriale self-service di Amazon.
Seguendo le istruzioni online, il file contenente il libro è stato caricato sui server dell’azienda, corredato di veste grafica, cenni biografici e commenti di retrocopertina e posto in vendita. Cliccando il tasto «acquista», i server Amazon si attivano, ne stampano una copia e il libro viene spedito fresco fresco all’acquirente a fronte di una percentuale del 50% sulle vendite trattenuta da Amazon.
Quando Bezos costituì la sua libreria telematica, quel 5 luglio del 1994, dichiarò di volerne fare un aggregatore planetario di libri, il più grande mai visto dai tempi della biblioteca di Alessandria. Ma la sua vera mira era in realtà più ambiziosa. I libri oggi costituiscono appena il 7% del volume totale di affari di Amazon (75 dollari miliardi l’anno), l’impero di Bezos è ormai un catalogo universale delle cose, una cornucopia planetaria di beni di consumo. «Centri di esaudimento» (fulfillment centers), il nome lievemente orwelliano con cui l’azienda denota ufficialmente i propri magazzini, contiene tutto un programma di gratificazione istantanea.
Allo stesso tempo, in Usa, Amazon controlla pur sempre il 41% delle vendite di libri e il 67% di quelle di ebook che, di per sé, costituiscono ormai il 30% del totale, una posizione di dominio assoluto a cui l’azienda di Seattle è arrivata rottamando in pochi anni gli editori e distributori e lo stesso sistema produttivo-commerciale che aveva dominato l’editoria per decenni. Una guerra senza quartiere che vede – nell’attuale contenzioso con la Hachette – l’ultima battaglia destinata in tutta probabilità a essere vinta da Amazon.
Nel suo ipermercato virtuale, Bezos ha riproposto il collaudato modello della mega distribuzione, specificamente quello di WalMart: la mastodontica catena nei cui smisurati magazzini si può trovare ogni cosa dall’amo da pesca all’attrezzatura agricola. Il volume di affari di WalMart permette alla più grande azienda d’America di scontare la merce oltre ogni limite contemplabile da concorrenti più modesti.

Battaglie perse

WalMart è in grado di offrire prezzi sotto costo perché può imporre condizioni quasi da strozzinaggio ai fornitori che sanno bene di non aver alternative a quella vasta rete di distribuzione. Anche Amazon, cresciuta inizialmente grazie alla straordinaria convenienza degli acquisiti online, dispone ora di una potenza di distribuzione tale da poter imporre sconti pesantissimi ai fornitori – nel caso dei libri, a editori come Hachette (che di recente, con i propri autori, ha tentato di opporsi ai tagli ai prezzi imposti da Seattle).

Si tratta, in buona sostanza, di un monopolio al contrario che, invece di gestire un cartello per poter alzare i prezzi a piacimento, usa il proprio potere per tirare al costante ribasso, eliminando progressivamente ogni concorrenza.

Il tesoro dei dati

D’altronde Bezos, un ingegnere informatico che aveva iniziato la carriera a Wall Street, ha intuito prima ancora di Brin e Zuckerberg che la vera valuta che avrebbe fatto la fortuna di Amazon non sarebbero stati i libri o l’altra mercanzia venduta, ma i dati raccolti sui clienti. Una volta incamerati nei propri computer, questi avrebbero permesso la commercializzazione mirata di ogni altra cosa ai lettori – un target prevedibilmente facoltoso e ben disposto agli acquisiti online. Bezos, quindi, è stato uno dei pionieri del modello Silicon Valley dove i contenuti (in questo caso i libri) sono considerazioni collaterali rispetto ai fini commerciali ultimi e, per questo, scontabili fino a pochi centesimi (una canzone in download), o eventualmente offrirli gratuitamente (i post su Facebook). Si dà il caso che, per raggiungere l’obbiettivo di Amazon, fosse necessario scardinare la più antiquata e conservatrice delle industrie culturali, e Bezos ci si è dedicato tenacemente.
Dapprima, come descritto da George Packer sul New Yorker, ha operato per replicare online l’esperienza «letteraria», assumendo critici e redattori di prestigio per compilare recensioni e segnalazioni per i lettori sul sito. Ma poi, col progressivo dominio del mercato, Bezos si è mosso sempre più verso un modello «digitale», privilegiando le recensioni degli utenti su quelle dei critici e usando «algoritmi di segnalazione» per suggerire automaticamente titoli in base ai profili dei consumatori.
Oggi le recensioni critiche sono state sostituite da un apposito social network, Goodereads.com, acquistato per l’occasione da Amazon l’anno scorso, su cui gli utenti si scambiano «opinioni e recensioni» di libri letti e consigliati. Con tutte le variabili di un «social»: i moderatori sono dovuti intervenire e imporre regole di condotta dopo che alcune «conversazioni» letterarie erano degenerate in insulti.

Al bando gli intermediari

La parola d’ordine di Amazon rimane convenienza per il cliente e «democratizzazione» dei contenuti, l’eufemismo con cui i magnati del digitale così spesso definiscono i loro monopoli.
Secondo il teorema dell’azienda la disintermediazione ad oltranza è un dato positivo. Rimosse le decisioni editoriali e le strategie distributive imposte «dall’alto» da critici ed editori, dalle élite culturali, rimane solo una vasta distesa di contenuti a disposizione libera e diretta dell’utente e saranno i suoi gusti collettivi gli arbitri di ciò che avrà o meno successo in un radioso mondo di democratica meritocrazia di mercato.
Per comprendere il successo di Amazon bisogna innanzitutto riconoscere che è difficile difendere gli editori tanto quanto impossibile era compiangere le case discografiche quando stramazzarono al suolo sotto i colpi del peer-to-peer e della «liberazione» degli Mp3 in rete. Ma pur non volendo prendere la parte delle tradizionali élite, la decantata «disintermediazione» ad oltranza è quantomeno sospetta – soprattutto ove il principale fautore ha ogni interesse a rimanere unico monopolista del nuovo mondo coraggioso.

Verso le sit-com

A differenza di WalMart o Carrefour è in gioco qualcosa di più che il solo prezzo delle patatine. Se è vero che la vendita dei libri è una questione socialmente fondamentale, il modello Amazon ha il potenziale di determinare aspetti importanti, per esempio come viene disseminato e scambiato l’insieme di idee alla base della cultura collettiva.
Il teorema darwinista in cui i contenuti vengono determinati dalla domanda collettiva è stato portato alla logica conclusione l’anno scorso da AmazonStudios, la divisione con cui, dopo la letteratura, Amazon ha abbordato la produzione audiovisiva. L’ingresso nella produzione di contenuti visionabili sulla piattaforma Kindle – il palmare di Amazon – per competere col servizio iTunes di Apple si era fatto tanto più urgente alla luce del successo del concorrente Netflix, la piattaforma streaming produttrice di House of Cards e Orange is the New Black.
Per farlo, Amazon Studios ha scelto un sistema singolare commissionando una decina di pilots i «numeri zero», come quelli che i network televisivi richiedono ogni anno per scegliere i palinsesti.
Ma Amazon ha fatto appello ai propri utenti, proponendo in visione gratuita i piloti e scegliendo quali produrre in base al responso positivo dei clienti. Della mezza dozzina selezionata almeno un paio, Transparent con Jefferey Tambor nei panni di un vedovo di mezza età che decide di vivere la propria identità trans e Alpha House, la sitcom satirica su un gruppo di cinici politici conservatori di Washington, firmata da Gary Trudeau, stanno riscuotendo un discreto successo di critica. Detto questo ad Amazon non interessa il verdetto dei critici quanto il numero di click degli utenti, che i contenuti vengano visonati sui plamari di propria produzione e che facciano comunque parte dell’«ecosistema nativo», come si sice a Silicon Valley, in cui il consumatore possa fare riferimento ad Amazon per ogni suo bisogno, dagli alimenti allo svago e la cultura, senza alzarsi dal divano.

La libertà dell’omologazione

Il «self-service» delle idee così entusiasticamente propugnato da Bezos possiede un inquietante risvolto: l’appiattimento. La formula di produzione «darwinista» è una versione estrema del populismo hollywoodiano la cui macchina industriale per l’intrattenimento privilegia già il successo sulla qualità. La formula che Amazon applica a fiction, libri e in futuro probabilmente a film e chissà – col giusto algoritmo – alle arti visive,elimina gli «intermediari», ma lascia al loro posto un solo colosso come mediatore unico.
In questa nuova «Amazzonia», c’è tanta libertà di consumo ma non ci sono, ad esempio, i sindacati – come WalMart, Amazon ha sempre respinto la loro «intermediazione» nei propri magazzini, perché «contrari agli interessi dei consumatori».
Secondo Amazon il self-publishing tramite CreateSpace spalanca le porte dell’editoria a chi sarebbe rimasto escluso dalla rete di editori tradizionali. Abilitati dai computer Amazon, essi hanno ogni interesse ad immetersi sul mercato come imprenditori freelance di se stessi, senza bisogno degli anacronistici anticipi che gli editori solevano dare agli autori per permetter loro di indirizzare e completare il proprio lavoro creativo. Con l’effetto Amazon, quei prestiti agli scrittori scompariranno – proprio come sono evaporati i soldi che permettevano ai giornali produrre giornalismo indipendente e approfondito. E se ci fossero dubbi sull’opinione che in merito ha Jeff Bezos, è di qualche settimana fa l’annuncio che il Washington Post, da lui acquistato a prezzo di liquidazione l’anno scorso,verrà utlizzato per creare una «news app» per Kindle a base di pillole di informazione. Se qualcuno poi volesse proprio pubblicare – a spese proprie, si intende – un’inchiesta più approfondita, sempre su Kindle esiste anche una piattaforma apposita, Kindle Singles su cui caricare on-demand, un’altra manciata di megabyte nella grande galassia dell’«ecosistema».
Liberi dalle irragionevoli vessazioni della qualità, ci potremo beare nella quantità di uno streaming infinito di contenuti il cui pregio è semplicemente di essere tali. La libertà di cultura di Amazon assomiglia alla libertà di espressione di Facebook (dove i contenuti sono sottoprodotti gratuiti) e la libertà di conoscenza di Google (altro monolito digitale che, anni fa, tentò di digitalizzare ogni libro esistente sula terra).
Sono questi i doni del radioso futuro di Silicon, dove il prezzo siamo noi.