Qualcosa di approssimativamente definibile come una moderata insoddisfazione costituisce il leit motif di quasi tutte le pagine migliori di James Salter: si trasmette ai suoi personaggi, ma prima ancora alla sua fiducia nella scrittura, alternatamente vissuta come un agente corruttore di ciò che tenta di descrivere e come il tramite di una perfezione non altrimenti raggiungibile. Forse perciò, dopo essersi lasciato convincere dal suo editor Joe Fox a lavorare alla propria autobiografia, Bruciare i giorni (che esce giovedì per Guanda, tradotta da Katia Bagnoli, pp. 392, euro 20,00) Salter la riconsiderò a distanza di tempo come uno sbaglio, quasi uno sperpero di materiali accumulati durante cinquant’anni che, come avrebbe poi annotato nell’Arte di narrare, «rappresentavano i puntelli, psicologici e fattuali, di qualsiasi cosa avessi scritto o potessi ancora scrivere».

Eppure, non ci sono – nella narrativa di questo scrittore americano circondato da un rispetto freddamente consapevole delle sue qualità – pagine altrettanto trascinanti di quelle dedicate a restituire le emozioni dei voli che effettuò come ufficiale dell’aeronautica: era il suo congedo dalla mediocrità, avrebbe detto, il riscatto da un passato insignificante, che fece desiderare a lui, come a molti altri ragazzi, «di non appartenere a nient’altro che alla guerra».

Da West Point alla Corea
Seguendo l’esempio del padre, Salter si iscrisse a West Point quando aveva diciassette anni, inaugurando una stagione al tempo stesso promettente e infelice, in quel «luogo di emozioni cupe, un grande orfanotrofio, all’apparenza freddo, rigido nelle sue pretese», dove riceveva ordini che perlopiù non capiva. Due anni più tardi cominciò il corso base di volo, e nel treno che lo portava alla meta attraversando la Virginia incontrò una donna sposata con la quale condivise una fulminea passione e alla quale disse di chiamarsi Petere Slaveck, come il personaggio di un libro di Koestler: «mescolavo tutto, fatalismo, sesso, guerra. Nella mia immaginazione ero già un pilota, bello, con un sentore di libertà, i venti che mi avvolgevano le gambe».

Fatti e personaggi passano senza fermarsi sulle pagine della sua autobiografia, alcuni portati dal caso altri dalle contingenze, ma non per questo meritevoli di guadagnarsi uno spazio speciale: tra i compagni di scuola, Salter ricorda Jack Kerouac, che rivede come un atleta pigro e tarchiato, «una specie di teppista» almeno quando correva; e Julian Beck, che si dedicava già a produzioni teatrali studentesche, estremizzando quei suoi modi affettati per i quali alle spalle veniva deriso; fra gli ufficiali dell’Air Force, dedica un ricordo a Ed White, che sarebbe morto nell’incidente di Cape Canaveral del 1967; e fra gli incontri nelle capitali europee, annota la presenza di James Baldwin e Norman Mailer tra gli invitati nella casa parigina di Gloria e James Jones, mentre le scarpe di lucertola fuori dalla porta segnalavano la presenza di Buñuel. A Roma, Salter frequentò la cerchia di Laura Betti , «il genere di donna che indossa con orgoglio la sua latente tristezza», e registrò, già allora, «una città di decrepitezza senza pari».

Anche i titoli dei suoi libri compaiono accompagnati da poche notazioni, perlopiù sull’insuccesso al quale andarono inzialmente incontro: adottò quello che sarebbe diventato il suo pseudonimo già al tempo del primo romanzo, La gloria, poi in Francia scrisse fra il 1961 e il ‘62 Un gioco, un passatempo, che nonostante gli sembrasse pressoché perfetto venne rifiutato «senza esitazione» prima dal suo editore poi da altri, finché lo accettò l’allora direttore di «The Partisan Review», George Plimpton.
A Parigi incontrò Irving Shaw, gran mondano, protagonista di una amicizia e di un sostegno ventennali, l’autore dei blurb più entusiatici che tutt’ora compaiono sui suoi libri. Anche il romanzo che nel ’72 Salter abbozzò sul retro di un calendario venne immediatamente rifiutato sia da Farrar Straus che da Scribner’s, finché finalmente lo apprezzò il già importante editor Joe Fox, che lo avrebbe pubblicato con il titolo Una perfetta felicità. Ma di tutto quanto Salter scrisse, il testo più difficile fu la lettera di dimissioni dall’Aeronautica militare: all’indomani della morte di un comandante di squadriglia, che si schiantò sull’acqua «non per aver volato vicino al sole… ma per essersi fatto beffe del demone della velocità», il trentaduenne James Salter si congedò. Più tardi, in un capitolo dell’Arte di narrare, avrebbe commentato: «Le mie dimissioni furono accettate con indifferenza, come se avessi restituito un paio di scarponi». Di quella lunga stagione gli rimasero gli incubi, promettenti «materiali d’archivio» per le sue memorie, che infatti da questi attingono passaggi involontariamente romantici perché saturi di descrizioni evocative.

Volare richiedeva metodo, e non sembrava che Salter fosse disposto a assecondarne gli imperativi: quasi agli esordi della sua carriera, si perse in volo e nei troppi minuti passati a girovagare senza orientarsi consumò l’intero carburante a disposizione: «Le spie erano in basso. Una a ogni lato del sedile. Cercavo di non pensarci ma erano come una ferita che non ci si può impedire di toccare; non riuscivo a non guardarle». Tentando un atterraggio di fortuna, precipitò come un meteorite su Great Barrington, nel Massachussetts, e si schiantò contro una casa vuota, gli abitanti appena scesi in strada attirati dal rumore dell’aereo, che pensavano si stesse abbassando per un saluto militare al loro figlio tornato dalla prigionia in Germania. «L’estate dopo il diploma, la prima grande estate della mia vita, passò senza lasciare traccia. Avevo una sola ambizione, degradarmi».
Lo mandarono in Oklahoma, come ufficiale dell’esercito regolare, e nell’estate del 1945 lo informarono che insieme all’amico Horner presto avrebbe volato con i B-25. «Ci interessavano solo le cose grandiose… le notti sfrenate, soprattutto, e il vuoto dell’alba quando oziavamo con indosso le uniformi spiegazzate…».

Nella tarda estate del 1951, finalmente la destinazione più inseguita: viene assegnato a Presque Isle, nel Maine, al 75° Fighter Squadron. Della guerra commenterà gli aspetti più imprevisti, l’opportunità di frequentare l’alta società, vedere case meravigliose convertite in ospedali o caserme, gli oggetti preziosi svenduti, famiglie dai nomi altisonanti alla mercé del primo sergente, e la mattina profumi di colazioni succulente seguite dagli arresti improvvisi e dalle frettolose esecuzioni.

Il primo volo di addestramento gli strappa esclamazioni commosse: «Sentii di essere nato per quello. Una delle prime cose che feci quando pilotai un F-86 senza l’aereo d’appoggio fu di salire in quota e spegnere il motore». Il cielo improvvisamente inondato dal silenzio, il metallo dell’areo diventato pesante: Salter non ha bisogno di abdicare alle sue professioni di realismo per indurre in chi legge un senso di evasione, di ebbrezza emotiva accompagnata dall’incollarsi dello sguardo ai dettagli fissati con sobrietà dalle sue poche, precise parole, intervallate dai molti punti fermi che sembrano scandire la definitività delle azioni riportate.

La spinta del desiderio
In una tra le pagine più belle descrive la performance di un suo compagno di volo, Stewart, che nonostante la sala operativa avesse cancellato la missione per il peggiornamento del tempo, decide di bruciare un po’ di carburante prima di rientrare e buca le nuvole lanciandosi in picchiata al massimo della velocità. Salter gli vola vicinissimo all’ala: «Era quasi impossibile tenere la virata. Stringevo la cloche con entrambe le mani. Continuavamo a scendere. Immobili, mi sembrava. Irrigiditi, frementi, fatalmente vicini…. Stewart ci stava portando nell’ignoto… stava mettendo alla prova il mio desiderio di appartenenza». Andrà in Corea proprio quando avrebbero cominciato a comparire in guerra i primi MiG-15, quegli apparecchi sovietici che gli apparivano come animali leggendari in fuga.
Dopo quarant’anni, annota le occasioni mancate, qualcosa che ancora gli brucia; e ricordando l’avidità con la quale scendeva lungo il fiume, in Corea, per l’ultimo controllo nella luce del crepuscolo, poi la terra che si inabissa nell’oscurità e l’improvviso bagliore degli spari che sembrano far tornare tutto a nuova vita, commenta: «Non era il dovere, ma il desiderio a spingerci avanti». Più tardi avrebbe costruito intrecci su tradimenti amorosi, passioni improvvise, fughe dalla città, menage suburbani, ma nulla accende le sue pagine come la baldanza giovanile delle prodezze dei voli, il riscatto dalla medietà offerto dalla cornice della guerra, i primi spaesamenti nelle capitali europee, tanto più mitizzabili in quanto inizialmente respingenti.
Mentre si avviava a terminare l’autobiografia eloquentemente titolata Bruciare i giorni si domandò quand’è che era stato più felice, e si disse che forse era subito prima che i suoi libri uscissero, o a volte mentre li stava scrivendo, perché lì sembrava salvare la vita dal tempo. «Il segreto per riuscirci è semplice – annota –: scarta tutto quello che è solamente decente».