La vista è spettacolare e il 3D una volta tanto non è futile: si resta chiusi nello spazio cosmico e un po’ alla volta ci si accorge di non avere punti di riferimento che non sia il proprio silenzio interiore: è “Gravity” di Alfonso Cuaron, il magnifico film apertura della Mostra di Venezia che ha travolto anche i festivalieri più scettici per quella percezione di altissima tecnologia, di profondità non solo interstellare stemperata dall’ironia.

Intanto George Clooney, dotato di tuta, casco e ottimismo alla Buzz Lightyear ranger dello spazio («verso l’infinito… e oltre!») con il nome fatidico di Kowalski sdrammatizza la missione fallita con l’idea di battere il record di permanenza nel vuoto del collega Anatolj: la colpa è della scienziata Ryan (Sandra Bullock, Ryan proprio come il soldato da andare a recuperare), che puntigliosamente ha cercato di sistemare la scheda fuori dall’abitacolo del telescopio mentre l’ordine a terra era che dovessero rientrare prima che i frammenti vaganti li spazzassero via.

Ora i due si trovano nello spazio legati a un cavo come a un cordone ombelicale cercando di trovare un appiglio per rientrare, in una serie infinita di colpi di scena. Come due esseri vaganti nello spazio che non vorrebbero nascere, ma in qualche modo sono richiamati a reincarnarsi sulla terra e saranno costretti a rivestirsi du tutte le difficili capacità che richiede la condizione di un essere umano: se decidi di vivere devi mettercela tutta. E te la dovrai cavare da solo.

Non prende il sopravvento il risvolto filosofico, sempre tenuto a bada dall’ironia che deve anche driblare il percorso minato del genere fantascientifico con le sue regole. A cominciare dalla musica country sparata nella navicella e che, lo ricordiamo tutti, era l’arma di distruzione di massa con cui sterminare i perfidi alieni. Si capisce che le cose si mettono male quando qualcuno spegne anche la musica.

Spiazzante è tutto l’impianto visivo, un esempio di come il cinema sta cambiando nella sua forma di percezione, un processo che tende ad inglobare lo spettatore nella sua intera sensorialità, a dispetto della «storia» narrata. Sono proprio gli elementi di narrazione gli appigli a cui si può aggrappare il pubblico per non perdersi anche lui nello spazio: sarebbe tanto facile chiudere gli occhi e lasciarsi morire, soprattutto dopo una grave perdita.

Intanto la colpa di tutto è di un’astronave russa, una Soyuz ha provocato il disastro causando la quantità di detriti vaganti a una velocità di parecchi chilometri all’ora, su un’altra base russa si potrebbe trovare la via d’uscita (ma come metterla con i comandi in cirillico? sarebbe facile se gli anglosassoni non fossero convinti che tutto debba essere espresso in inglese) per non parlare di quella cinese: lì ci si può far prendere dal panico, anche in quell’ambiente rassicurante fatto di pianticelle di riso e tavoli da ping pong. Ma c’è poco da scherzare, Kowalski non ce la farà, Ryan dovrà cavarsela da sola e il senso di profonda solitudine prende il sopravvento (lo stesso sguardo solitario del protagonista di un altro film di Cuarón “I figli degli uomini”). Quello spazio oscuro con tutte le sue costellazioni appare come un’immensa discarica di ferraglie vecchie, arrigginite, ma all’occorrenza utili: quando sei stato al comando di una astronave le hai viste tutte.

Girato negli Shepperton Studios di Londra dopo un lungo travaglio produttivo, il film spicca per la sfida dell’apparato tecnico usato per simulare la mancanza di gravità, che Cuarón chiama familiarmente «la scatola» e grazie al quale ha ottenuto un piano sequenza di diciassette minuti (quest’anno a Venezia la gara tra i cineasti era a chi aveva il piano sequenza più lungo). È stato come raggiungere una frontiera. Anche per gli attori si trattava di una novità, una sfida. Non c’era possibilità di errore, né punti di riferimento. Quasi a diminuire le distanze tra terra e spazio, in confrenza stampa a Venezia Sandra Bullock parlava con nonchalance della telefonata ricevuta dallo spazio sul set da un amico di suo fratello, un astronauta, che le forniva consigli e suggerimenti su come muoversi. E Clooney dichiarava che sì, aveva comprato un satellite, per controllare gli eccidi in Sudan.