«Perché» adesso e non negli anni sessanta o settanta? «Eravamo troppo occupati a essere linciati e violentati. Se tua nonna pende da un albero non pensi a chi vince l’Oscar per la miglior fotografia». Tra l’infuocata, affilatissima, conduzione di Chris Rock («Jada che boicotta l’Academy è come se io boicottassi le mutande di Rihanna: non l’hanno invitata!») e la vittoria finale, a sorpresa, di Spotlight, l’Oscar 2016 ha vinto la sua scommessa più grossa, quella con la realtà . Assediata da rating tv in calo da anni (anche la cerimonia di domenica sera è meno 6% rispetto a quella del 2015), dalle accuse di promuovere un cinema sempre più lontano da quello che vede il grande pubblico, di essere composta da un demografica in via di estinzione e, con #OscarSoWhite, addirittura di razzismo, l’Academy ha risposto con un vigore e una creatività che non dimostrava da tempo. Con latitudine che spazia tra un thriller giornalistico che punta il dito direttamente al Vaticano, la Frontiera del mountain man Hugo Glass e la death race ecofemminista di uno splatter postatomico. Con una cerimonia più agile e meno ingessata, anche nelle sue gaffe.

E ricordandoci che, in prospettiva, l’Oscar è una cosa frivola («nel tradizionale montaggio in memoriam quest’anno ci sono anche i neri uccisi dalla polizia mentre andavano al cinema», ancora Chris Rock). Antisentimentale, quasi austera, con quella sua aderenza inscrollabile al lavoro quotidiano, paziente, del giornalista investigativo, la «denuncia» di Spotlight (miglior film e miglior sceneggiatura originale) evoca una tradizione di cinema hollywoodiano impegnato ma non magniloquente, che predata la deriva artsy e autocongratulatoria, di tanta produzione d’autore che si vede oggi, e di cui The Revenant costituisce un esempio lampante.

La vittoria del film di Tom McCarthy rispetto a quello di Alejandro Inarritu (che vince però miglior regia, fotografia e attore/Leonardo Di Caprio) è da festeggiare anche in questo senso. Accanto a quella vittoria, i sei Oscar al blockbuster d’avanguardia Mad Max: Fury Road sono il tributo alla forza di un’industria che sa combinare visionarietà eversiva (chi scrive pensa che George Miller sia il vincitore morale della statuetta di miglior regista) e qualità tecnica altissima, sperimentazione formale e successo nei multiplex.

Era forse dai tempi del Signore degli Anelli che un grande film d’azione non suscitava tanto entusiasmo agli Academy Awards (snobbate nei sommari, le categorie «tecniche» sono in realtà la cartina tornasole dalla salute dell’industria del cinema Usa).
In quell’equilibrio stanno il segreto di Hollywood e della sua sopravvivenza.