La filologia è un’arte strana, difficile da spiegare. Un po’ aliena, addirittura. Filo-logia. Già il termine sembra combinare le metà spaiate di altre devozioni e discipline, dai nomi più chiari. Tutti sanno che la filo-sofia si fa amando il sapere e che la bio-logia dice della vita; che il fil-antropo ama il prossimo suo mentre l’antropo-logo ne dice; e via dicendo (e amando) in greco. Ma cosa fa il filo-logo? Ama il logos, il linguaggio, quel che si dice? O dice d’amore, per citar male un poemetto medievale che i filologi stessi annoverano tra le opere di Dante pur avendo dimostrato che, probabilmente, l’ha scritto qualcun altro?

SE UNO NON VA all’università a studiare Lettere si fa un’idea sbagliata della filologia. I riferimenti immediatamente disponibili sono passatisti, un po’ diabolici, letteralmente barbosi: il padre di Indiana Jones, col suo inestimabile taccuino, i protagonisti di certi romanzi di Umberto Eco e Dan Brown, l’indimenticabile Gandalf di Ian McKellen che si attarda a decifrare cruciali pergamene in elfico su fatti che, secoli addietro, ha vissuto personalmente. Questi anziani linguisti praticano la filologia ma non la spiegano, la rappresentano in alcuni suoi riti e feticci ma non nella sostanza. Il genere che permette a chiunque di capire cos’è che fa il filologo – e dunque cosa ha fatto Lorenzo Tomasin nel suo ultimo libro (Europa romanza, Einaudi, pp. 238, euro 25) – non è il fantasy. È la fantascienza.

La protagonista di Arrival, uno dei più entusiasmanti film di fantascienza di questo millennio, è una filologa: studia la lingua di visitatori alieni giganteschi, che spruzzano inchiostro da una delle loro sette gambe verdi per stendere articolatissimi glifi olografi sul vetro che li separa dall’atmosfera terrestre. Nello sciogliere quelle cifre e nell’approssimarsi al loro senso, ai loro scriventi, la linguista fantascientifica accede a una comprensione ulteriore della realtà, come credevano di fare gli europei della prima modernità alle prese coi geroglifici egizi. Evade l’esperienza umana della cronologia lineare: viaggia nel tempo. Lo stesso era successo a Jodie Foster in Contact, una più datata ma non meno fanta-filo-logica pellicola d’incontri alieni. La fantascienza di Spielberg si gioca tutta sulla trasmissione linguistica, sulla mescidanza di idiomi, e così quella di Star Trek, sulle cui navi spaziali è previsto appunto l’ufficio di un linguista. Anche la Nyota Uhura di Nichelle Nichols, modello di riferimento per generazioni di afroamericani (inclusi Whoopi Goldberg e Barack Obama), era una filologa.

«EUROPA ROMANZA» ci mette in contatto con alcuni alieni. Un’attempata vedova di Venezia, lo scrivano di bordo di un panfilo sull’Egeo, un trafficante di pellame ebreo in Provenza. E ancora un commerciante di generi alimentari nel golfo di Valencia, una signora di York che cataloga rosari e crocifissi prima di morire, un maggiorente di Friburgo e un musicista di corte in Baviera. Tra loro figurano alcuni comprimari terrestri, che ci sono familiari: la regina Elisabetta I, l’ultimo imperatore latino di Costantinopoli, addirittura Mozart. Ma a farci viaggiare nel tempo sono piuttosto i protagonisti, restituiti dal silenzio siderale di archivi legali e mercantili, abitanti di una galassia di paesaggi diversissimi tenuti insieme dalla radice romana delle loro lingue – la Romània appunto, al crepuscolo del Medioevo e appena oltre. Questi sconosciuti, attraverso la necessaria mediazione di un filologo romanzo, ci spiegano l’archè di quel che chiamiamo Europa assieme ai loro altrettanto estranei personaggi minori: la villana Bertolotta con suo marito Prosdocimo, un tale Ghrigorio de Rochosleia i cui ori e argenti furono comprati alla zecca di Canterbury, gli schiavi (o sclavi) dal cui nome veneziano è evoluta la parola italiana più usata nel mondo: ciao. Sono le loro cifre, annotate sull’esterno di rotoli di pergamena, in registri, testamenti e missive conservati nelle camicie di carta giapponese dei fondi bibliotecari europei, a offrirci l’occasione di evadere le cronologie cui siamo abituati.

Noialtri italiani (e specie italianisti), fin dalle elementari, impariamo a riconoscere la nascita della modernità occidentale in certi fenomeni introversi e incantevoli dell’età che chiamiamo Rinascimento: la riscoperta (o meglio, l’invenzione) dell’antico, dell’autografo, dell’autore. La filologia appunto, che forse più della filosofia domina l’icona essenziale di questa mitologia: la scuola di Atene di Raffaello. A chi è abituato a tale narrazione un po’ cattolica di come sia nata l’Europa moderna farà girare la testa la tesi che emerge dallo studio di Tomasin, lontanissima dai tersi chiarori delle stanze vaticane.

«EUROPA ROMANZA» evoca semmai le mastodontiche tele di Rembrandt che si contemplano nei musei di Amsterdam, ma ne retrodata l’essenza a secoli che, negli studi anglosassoni, si includono già nell’ambigua formula early modernity. La parola chiave per leggere questa tesi attraverso l’analisi dei testi e dei personaggi che la dimostrano lungo i capitoli del libro è necessità. Le occasioni che, generando testi, mappano l’ultimo Medioevo europeo sono tutte dettate da questioni di necessità. La necessità di comunicare con qualcuno o di gestire i propri beni senza che un intermediario s’impicci. La necessità di colmare distanze e concludere affari senza peregrinare fisicamente. La necessità di condividere i nomi di oggetti di scambio, che siano articoli di bottega o preziose eredità da trasmettere. L’Europa nasce, linguisticamente, non tanto nelle penne cristallizzanti dei poeti e dei principi, ma in quelle incerte, fluide dei commercianti e degli speziali, dei proprietari, di chi s’industria per necessità.

Europa romanza è un libro d’inquietante spirito geometrico, che conta esattamente quaranta note per ognuno dei sette capitoli, invariabilmente divisi in tre atti e aperti da un testo-totem, un geroglifico alieno, interrogando il quale il remoto passato d’Europa è costretto a rivelare segreti che l’arte, la letteratura, persino la storia non sanno dischiudere. Sono i segreti della lingua, questa pantera odorosa che non dorme mai dove le si prepara il giaciglio. Della lingua vera però, della lingua che tradisce le altrimenti irrecuperabili verità della sua omonima di carne: cosa si mangiava, cosa si diceva, come si diceva quel che si mangiava, da zibibbi e marzapani di radice araba sulle bocche di navigatori siciliani del quindicesimo secolo alla merda (sic) su quella di Mozart. Delle lingue, più correttamente, giacché la mescidanza di idiomi al tramonto del monolinguismo nelle scritture europee è il tema centrale del saggio.

SE LYNN MARGULIS dimostrava, coi suoi studi sui mitocondri, che nella nostra biologia non si danno individui ma solo moltitudini di alleati simbionti, Tomasin ci ricorda che l’unica vera uniformità europea sta nell’incontro, nell’ibridazione di differenze. In quest’epoca di convenienze invece che di necessità, in cui si crede di rendere accessibili documenti e idee attraverso le intransitive forze omologanti dello scanner e del pananglismo monolingue, viaggiare nel tempo coi mezzi fantascientifici della filologia è particolarmente opportuno.