Kaguya-hime no monogatari. Il racconto della principessa Kaguya. Sin dal titolo originale, il film di Isao Takahata,si annuncia come un oggetto meraviglioso, tutto da scoprire. Co-fondatore dello studio Ghibli nel 1985 assieme all’amico Hayao Miyazaki, Takahata è noto non solo nell’ambito degli appassionati e conoscitori di animazione nipponica grazie a capolavori come Una tomba per le lucciole (1988) e Pompoko (1995). Le sue opere, infatti, si sono imposte non tanto per la loro stupefacente purezza tecnica e formale, quanto per l’attenta costruzione drammatica intrecciata a uno sguardo in grado di suggerire misteri e presenze invisibili scegliendo un approccio filmico, prossimo ai maestri del cinema giapponese come Kinoshita e Ichikawa, piuttosto che le acrobazie visive dei mangaka più rinomati.

Kaguya-hime no monogatari, presentato nell’ambito della Quinzaine des realisateurs nel giorno di Adieu au langage di Jean-Luc Godard, ha creato fra i due film e i due autori, entrambi assenti dalla Croisette, una fitta rete di corrispondenze immaginarie e reali. Produttore di alcuni dei lavori miyazakiani più amati e celebrati come Nausicaä della valle del vento e Laputa – Castello nel cielo, Takahata annuncia per la prima volta nel 2005 di volere realizzare l’adattamento cinematografico di Kaguya-hime no monogatari, ispirato a Taketori monogatari, ossia storia di un tagliabambù, fiaba popolare del X secolo ritenuto dagli studiosi di letteratura nipponica il più antico esempio di narrativa in lingua giapponese tardoantica. La vicenda del tagliatore di bambù Okina, che trova una principessa in una canna che risplende nella notte, e che stando agli studiosi presenta delle similitudini con analoghe fiabe tibetane, è stata più volte oggetto delle attenzioni di cineasti e mangaka.

Nel 1980, Leiji Matsumoto, il creatore di Captain Herlock, realizza La regina dei mille anni, un manga fantascientifico ispirato alla storia del tagliabambù, che diventa l’anno dopo una serie televisiva di 42 episodi prodotti dalla Toei Animation, mentre Ichikawa firma nel 1987 Taketori monogatari, un film interpretato da Toshiro Mifune. Anche serie più vicine nel tempo come Sailor Moon, Inuyasha e persino Lupin III, hanno subito il fascino di questa fiaba la cui influenza su scrittori, registi, intellettuali e artisti è stata davvero incommensurabile.

Opera dalla gestazione produttiva complessa, la lavorazione del film è stata annunciata la prima volta nel 2005 e si è completata otto anni dopo in seguito a una serie quasi interminabile di ritardi e ripensamenti, anche perché lo studio Ghibli si è trovato sovente coinvolti in progetti almeno altrettanto complessi quanto quello di Takahata, cosa che ha inevitabilmente costretto a procrastinare l’inizio della realizzazione. Costato quasi 5 miliardi di yen, Kaguya-hime no monogatari è senza ombra di dubbio uno dei titoli più ambiziosi mai prodotti dallo Studio Ghibli. Accolto trionfalmente dal box office giapponese, il film di Isao Takahata è, a suo modo, un altro addio al linguaggio, e non meno sofferto e lancinante di quello godardiano.

Rispetto all’idea maggioritaria riguardante l’animazione giapponese, regno di meraviglie ultra-tecniciste e di visioni foriere di allucinazioni da futuro anteriore, Takahata ha optato per una scelta grafica che richiama alla memoria gli acquerelli, accennando volti e paesaggi, calando i personaggi in spazi ampi e quasi vuoti, in linea con la tradizione iconografica giapponese e cinese. Ed è proprio il soffio dell’aria che circonda i personaggi a fare la forza del film di Takahata che si dispiega davanti agli occhi dello spettatore con solenne e serena maestosità.

Il tratto, morbido e a tratti appena accennato, si muove con la silenziosa ineluttabilità di una marea notturna, potente, ma quasi invisibile, come nascosto allo sguardo, come richiuso sul suo stesso segreto. Apologo sulla felicità e l’autodeterminazione, del quale Takahata porta alla luce il sotto-testo protofemminista, Kaguya-hime no monogatari possiede la medesima vertiginosa bellezza dei Mizoguchi più audaci. Come non pensare, per esempio, a L’imperatrice Yang Kwei Fei o a L’intendente Sanshô? Takahata riflette, infatti, nel destino di Kaguya (il cui nome significa «notte splendente») quello degli uomini che non comprendono il miracolo della sua presenza nel mondo, mentre lei assume e penetra il mistero della vita degli uomini sulla terra.

Come un adieu au langage, Takahata ci parla di e da un altro cinema giapponese. E se Godard vira verso un cinema stereoscopico che assomiglia vertiginosamente a Cézanne e a Van Gogh, Takahata riduce la presenza del tratto al minimo essenziale, come in un ineluttabile processo di erosione. Tornare dunque a essere assenza, come Kaguya che ascende al mondo della Luna, accompagnata da un corteo celeste di nuvole indifferente agli affanni degli uomini, mentre lei chiede, come ultimo dono, di potere ricordare ancora una volta, prima di volgere per sempre le spalle al mondo.

Kaguya-hime no monogatari, film che avrebbe meritato ampiamente posto nella competizione maggiore, conferisce all’abusato sostantivo «capolavoro» un significato completamente nuovo.