Quattrocentotrentamila cittadini piemontesi (circa un decimo del totale) non ricevono il segnale regionale della Rai: 150.000 a Novara, 100.000 rispettivamente ad Alessandria e ad Asti, 50.000 a Biella, 30.000 delle colline torinesi. Di questi, 50.000 non vedono del tutto il servizio pubblico. Ecco, ora che si andrà a votare per il nuovo consiglio, dopo le forzose dimissioni dell’ex governatore Cota, come sarà tutelata la par condicio? È auspicabile che il ministero competente – l’amministrazione non ammette interruzioni, ancorché in presenza di crisi politica- e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni provvedano. E sì, la par condicio è una cosa seria e sottovalutarne la portata incrina la dialettica tra le parti. Il caso piemontese disvela l’incongruenza della via italiana al digitale, diventato quest’ultimo in diverse realtà territoriali un incubo, piuttosto che una straordinaria opportunità. Come poteva essere con un governo diverso della transizione tecnologica, nazionale, univoca e impegnativa, con una maggiore attenzione alle emittenti locali. E dire che l’amministrazione Obama, in un paese un po’ più grande come gli Stati Uniti, fecero lo switch off in una notte, mettendo a disposizione degli utenti squadre di tecnici volontari.

Torniamo alla par condicio. Oltre alla consultazione piemontese, si avvicina quella per il parlamento europeo. Le politiche nazionali sembrerebbero allontanarsi, ma chissà chi lo sa. Ecco, la novità (apparente) sta in ben due sentenze del Tar del Lazio, che hanno annullato le sanzioni inflitte dall’Autorità a Rai tre per i programmi «Che tempo che fa» e «In ½ ora», rispettivamente condotti da Fabio Fazio e Lucia Annunziata. Gli esposti contro i due format furono presentati da Renato Brunetta, convinto che le pari opportunità non fossero state rispettate. Ebbene, la giustizia amministrativa ha ritenuto che, oltre ai dati quantitativi (il conto del minutaggio delle presenze dei vari leader od esponenti dei partiti e dei gruppi), si dovessero considerare i criteri qualitativi. Finalmente, si riabilita il senso della legge-madre, vale a dire la bistrattata legge n.28 del febbraio del 2000. Ingiustamente abiurata – ancorché considerata pienamente legittima dalla Corte costituzionale- da polemisti forse lettori distratti di un testo semplice ed equilibrato, la normativa generale sulla parità di accesso già chiarisce il rapporto tra qualità e quantità. Si fa una differenza sostanziale tra comunicazione politica e informazione, quest’ultima sottoposta eccezionalmente a regole piuttosto rigide solo nel periodo stretto della campagna elettorale. Per il resto, la par condicio va rispettata nel corso di un intero ciclo di trasmissioni, se il format è seriale, come nel caso dei talk show; e, comunque, con l’avvertenza di considerare il trattamento riservato agli ospiti e la realtà concreta («vicende interne…in un determinato periodo») delle singole forze politiche.

Insomma, la legge del 2000, nata per tamponare anche lo strapotere mediatico di Silvio Berlusconi in assenza di una effettiva regolazione antitrust e di una decente soluzione del conflitto di interessi, è assai più elastica di quanto un’interpretazione occhiuta e burocratica abbia voluto. Non per caso. Per eliminarla del tutto, dopo che nel novembre del 2003 erano state escluse dal trattamento specifico le emittenti locali, il cui numero elevato è di per sé garanzia (almeno teorica) di pluralismo.
Le sentenze del Tar del Lazio dovrebbero, se mai, indurre l’Agcom e la commissione parlamentare di vigilanza a deliberare regolamenti applicativi di maggiore agilità e rispettosi delle logiche e degli stili della comunicazione e delle news. Sottosistemi mediatici contigui, ma diversi.