Venere ammaliante, all’anagrafe ha 50 anni ma davanti a lei, sotto al palco, l’ultima cosa che viene in mente è l’età. La prima è la bellezza sconfinata, l’attitudine congenita al ballo, la voce suadente come avesse inghiottito un secolo di cantanti afroamericane, da Billie Holiday a Erikah Badu, spigolosa e fiera quando impone uno spoken poetry veloce ma tagliente come un fulmine.

Magrissima, tonica, bella come il sole, i ricci le incorniciano un viso meno spigoloso di quando il suo volto era spesso protagonista dei video musicali in rotazione su MTV, Neneh Cherry si è esibita sul palco dell’Auditorium di Foligno nell’ambito del Dancity, rassegna unica almeno perché nasce in provincia umbra e propone un cartellone sempre perfettamente assortito, che quest’anno ha proposto Flying Lotus, Caribou, Theo Parrish, Omar Souleyman, Ninos du Brasil, Clap! Clap!, Dj Khalab e molta altra ottima musica. Infatti, prima di lei c’era la cervellotica grana elettronica del messicano Murcof, un maestro del genere, che dialogava col pianoforte contemporaneo di Vanessa Wagner.

Ma Neneh, lei è uno spettacolo. Dei ritocchi a colpi di bisturi e di botox non ha proprio bisogno. Con i fratelli Page alla batteria e tastiere, meglio noti come Rocketnumbernine, ha raccontato il suo recente progetto discografico Blank Project. Se la ricordate per la hit 7 Seconds con Youssou N’Dour, già ministro della cultura e del turismo in Senegal, siete completamente fuori strada. Artisticamente, Neneh è morta e rinata. Un paio di anni fa i prodromi di un ritorno annunciato, quando le ultime tracce risalivano addirittura a Man del 1996.

Certo, The Cherry Thing non le ha permesso di tornare a frequentare le charts di mezzo mondo, con quella centrifuga spigolosa di cover (Stooges, Suicide, Ornette Coleman, MF Doom) realizzate con il trio avant-garde The Thing: Mats Gustaffson ai sassofoni, Ingebrigt Håker Flaten al basso e Paal Nilssen-Love alla batteria. Però le ha permesso di far pace con se stessa, allontanando i fantasmi dell’adolescenza turbolenta e della maturità contagiata da un successo debilitante. Così quest’anno il suo vero ritorno con un lavoro, prodotto da Four Tet, dal quale ha riproposto magnificamente dal vivo: Naked, Spit Three Times, Everything. Note e parole usate per intrecciare rivolte e sentimenti.

L’inclinazione naturale al jazz è genetica. Figlia di un musicista della Sierra Leone e della splendida pittrice svedese Moki, è cresciuta con il patrigno, Don Cherry, il trombettista che fece la fortuna di Ornette Coleman. Lui portava spesso figli e figliastri con sé. E li faceva sedere sul palco lasciando nelle loro mani oggetti di vario tipo: pietre, strumenti giocattolo, cianfrusaglie. Neneh era felice, li prendeva e correva in un angolo con il fratello Eagle-Eye. Suoni e rumori che non entravano nell’amplificazione del set ma lo coloravano parecchio.

Tutto si risolveva nel miscuglio folgorante di free jazz, retaggi africani e sonorità cosmiche: suoni spezzati, gemiti affannosi della tromba di Don, schegge di note. Una strada nuova, cosmica, frantumata. Cinquant’anni di palcoscenico e ancora è un sex symbol. E tutto torna nella performance di Neneh. Ride spesso, balla incantando, maschera persino quel velo di tristezza che conserva nell’animo.

Un lampo che l’attraversa ogni tanto. Il primo successo nel 1990, poi alti e bassi. Le hit Back to Life e, anni dopo, 7 Seconds con Youssou N’Dour, e un anticipo della stagione trip hop con Manchild. Ma anche giorni, mesi e anni di isolamento forzato: uomini che l’hanno fatta soffrire, prima di trovare quello giusto e dedicarsi a crescere i figli. Così improvvisamente mentre cante esplode in grida liberatorie: si è riappacificata con il suo essere bambina.

Il tutto in un magma stratificato creato dai due compari di palco che a volte è così presente e pressante e quasi disturba le capriole, canore e fisiche, di questa donna speciale. La sua voce taglia sfumature scomode, difficili, è ambigua, in uno dei due microfoni forse troppo filtrata. Però, alla fine, anche queste asperità fanno parte del gioco: confluiscono in un suono denso e vibrante. Mai banale.