Gli anniversari sono quasi un evento comune nella musica, dove, in ogni giorno dell’anno, si può trovare una data riguardante jazzisti, compositori, rockstar, oppure la ricorrenza di un evento (dall’uscita discografica al concerto memorabile) o ancora l’ufficialità di un brevetto, in questo caso relativo soprattutto a strumenti e congegni musicali. È il caso anzitutto del vibrafono che inizia a essere concepito fin dal 1916, quando Herman Winterhoff, liutaio della Leedy Manifacturing Company a Gran Rapids nel Michigan vuole creare inediti effetti «vox humana» su una marimba in lamine di tre ottave: collegando lo strumento a un motore ottiene soluzioni di vibrato, da cui il termine «vibrafono». Messo a punto, ufficialmente, cent’anni fa, nel 1921, la Leedy lo mette in vendita nel 1924, ottenendo subito una discreta popolarità grazie a due brani, Aloha ‘Oe e Gypsy Love Song di Louis Frank Chiha, artista di vaudeville.
Tuttavia il vibrafono di Winterhoff, con barre di acciaio e senza il meccanismo a pedale, ottiene un suono un po’ greve, che viene per così dire addolcito dalla concorrenza. Nel 1927 infatti John Coughan Deagen – già progettista della marimba in acciaio – in quanto titolare della JC Deagen Inc ordina al proprio capo accordatore, Henry Schluter, di sviluppare un modello simile, ma con una musicalità più dolce, saporita, avvolgente: il tecnico quindi impiega barrette di alluminio per rendere il suono più pastoso e meno dissonante, aggiungendo una barra di smorzamento a pedale per conferire ulteriore espressività; per motivi legali, questo nuovo modello, uscito sul mercato nel 1928, deve chiamarsi vibraharp, ma sarà quello che, alla fine, prevarrà in diversi generi musicali, dal jazz alla classica, entro pochissimo tempo.
Difatti nel 1930 esce il 78 giri Memories of You di Louis Armstrong, dove si ascolta un assolo vibrafonistico di un ventiduenne batterista, Lionel Hampton, che si avvicina allo strumento per caso, quando il grande Satchmo gli propone di eseguire qualche nota su un modello Schluter, trovato nello studio di registrazione. Nel 1931 invece il suono del vibrafono è presente in Lulu di Alan Berg, il capolavoro del melodramma espressionista, dove già si avverte l’influenza della dodecafonia di Arnold Schönberg. Da allora il vibrafono appare spesso a contrassegnare le vicende e l’evolversi di scuole, tendenze, correnti.

ELABORATE PARTITURE
Nella scrittura colta novecentesca, impiegano dunque il vibrafono in lavori sinfonici, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, almeno tre grandi compositori, artisticamente legati alla tradizione romantica come Ralph Vaughan Williams, Benjamin Britten e Dimitri Shostakovich (persino il sempre nuovo Igor Stravinsky nei Requiem Canticles), mentre, anticipati dai modernisti Morton Gould e Darius Milhaud, alcuni esponenti della neoavanguardia sia europea sia americana – Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen, Steve Reich, Morton Feldman – ne fanno il protagonista di almeno una delle loro elaboratissime partiture.
A valorizzare però il vibrafono quale «macchina» per improvvisare arriva la Swing Era grazie al citato Hampton, il quale, solo verso la fine degli anni Trenta diventa noto al grosso pubblico: dopo Armstrong, Hamp (come viene soprannominato dagli amici) forma un complessino in California, esibendosi però in anonimi nightclub, finché viene per caso ascoltato dal clarinettista Benny Goodman, da poco incoronato Re dello swing: entusiasta del suono e dello strumento, Goodman non solo accoglie Lionel a braccia aperte nella propria big band, ma soprattutto allarga il trio con Gene Krupa (batteria) e Teddy Wilson (pianoforte) a quartetto: il successo grazie a hit come Avalon e Moonglow è tale che, nel 1940, fonda una propria orchestra (attiva fino al 2000), con cui incide Flying Home (1942) – brano che segna un’epoca – e registra Rock’nRoll Rockin’ Chair (1957), primo rock al vibrafono.
L’impatto su altri musicisti è notevole, a cominciare da due illustri xilofonisti, che passano al vibrafono dopo l’ascolto di Hamp: il dixielander Adrian Rollini, primo autentico polistrumentista della storia del jazz, lo adotta definitivamente sul finire della breve carriera, il giovane Red Norvo fa transitare lo strumento verso il bebop, in cui Milton Jackson resta il protagonista assoluto. Tuttavia Milt non si accontenta di accompagnare Parker o Gillespie, ma, assieme all’amico John Lewis (pianoforte) fonda, nel 1952, il MJQ (Modern Jazz Quartet). La messa a punto di un suono contrappuntistico tra vibrafono e pianoforte, che si ispira addirittura alla fuga barocca e a diversi stili classici, fa del MJQ un unicum nel panorama jazzistico, tuttora ineguagliato e inimitabile – da sentire almeno il live European Concert del 1960 – anche per la longevità della band, che, tra alti e bassi, arriva fino al 1995. A sviluppare ulteriormente le potenzialità del vibrafono, anche sul piano tecnico, usando quattro bacchette, è Gary Burton il quale, nonostante la delicatezza del timbro, viene considerato, nel 1969, uno degli anticipatori del rock jazz (Throb) e al contempo tra i pochi a interagire con il folk (Country Roads & Other Places); nei decenni successivi, oltre ad avvicinarsi al tango, lavorando con Astor Piazzolla, Burton prosegue a sperimentare all’interno del jazz, duettando, una tantum, con il pianista Chick Corea in un disco memorabile quale Crystal Silence (1972). Sempre nei Seventies il rock d’avanguardia propone la prima donna vibrafonista Ruth Underwood per diverso tempo con i Mothers of Invention di Frank Zappa, ripreso vent’anni dopo da John Herndon all’interno del quartetto post rock Tortoise. Ma, molto prima, c’è chi, fin dal 1957, imprime, con lo strumento (attorniato dalla classica orchestrona) una svolta decisiva a pop e lounge music: si tratta dell’hawaiano Arthur Lyman con l’album Taboo, come spiega Francesco Adinolfi nella aggiornatissima versione del volume Mondo Exotica (Marsilio, 2021), oppure chi dal vibrafono jazz passa alla canzone d’autore, scelta rivelatasi vincente, dato che ci si riferisce a un certo Paolo Conte.

ALTRE SONORITÀ
Dal 1931, invece, viene creato il primo pianoforte elettrico, chiamato Neo-Bechstein (in quanto costruito dalla C. Bechstein Pianofortefabrik), che altro non è che un piano a coda dotato di pick-up elettromagnetici, benché sia il trentaduenne Harold Burroughs Rhodes a creare per l’esercito nel 1942 lo strumento che rivoluzionerà il genere. Nel jazz, nel pop, nel rock bisogna attendere, de facto, la fine degli anni Sessanta, per assistere, sulle scene americane, all’ingresso del Fender Rhodes: la frenetica corsa alla modifica soprattutto elettrificata di strumenti classici occidentali per gli americani vuol dire non tanto la voglia di nuove sonorità, quanto piuttosto la ricerca di soluzioni pratiche, obbedienti al tipico pragmatismo di cultura protestante calvinista, in perfetta sintonia con le idee del capitalismo nell’ottimizzare le risorse e i guadagni. Tutto, nella musica afroamericana, inizia a fine Ottocento sia con la batteria sia con il banjo: la prima assembla singoli pezzi (tamburi e percussioni); il secondo, di antiche origini africane, possiede una cassa metallica, consentendo una maggiore risonanza sonora. Poi, negli anni Trenta, si passa da un lato a elettrificare la chitarra, dall’altro a costruire l’organo Hammond per le chiesette di tutti gli States, a ottimizzare gli interni di edifici religiosi anche molto piccoli (o con scarse finanze). L’Hammond, in tal senso, imprime vitalità a gospel e spiritual, ma solo alla fine degli anni Cinquanta, troverà un’identità espressiva nell’hard bop grazie a Jimmy Smith e a numerosi altri organisti jazz. Tuttavia proprio in quegli anni si cercano soluzioni meno ingombranti e più economiche nella messa a punto di piccole formazioni orchestrali, pronte a effettuare numerose tournée, non più in treno o in pullman, ma con l’aereo, dove uno strumento come il contrabbasso paga, nel trasporto, l’equivalente del biglietto di una persona, mentre per il pianoforte (salvo rare eccezioni divistiche in altri generi) è necessario risolvere il problema in loco. E proprio contrabbasso e pianoforte subiranno, nel corso degli anni Cinquanta, l’elettrificazione nel tentativo di far fronte anche a questo tipo di problemi non indifferenti nell’economia delle spese nelle organizzazioni concertistiche.
Del resto il jazz rock dei primissimi anni Settanta – a parte l’iniziatore Miles Davis, che risulta tra i pochissimi a suonare la tromba in questo genere – è strumentalmente caratterizzato dalla priorità accordata al Fender Rhodes e al basso elettrico, oltre naturalmente batterie e sassofoni (talvolta elettrificati) e percussioni etniche inconsuete, senza nulla togliere ai nuovi preminenti ruoli di chitarra e violino, anch’essi in versione elettrica. Talvolta il suonatore di Fender Rhodes, come accade per esempio con Joe Zawinul nei Weather Report, è circondato su tre lati da strumenti quali moog e mellotron, sintetizzatori e altre tastiere; talaltra il pianoforte classico è supportato da quello elettrico o da altri congegni, lasciando al tastierista un compito fondamentale per creare i suoni di una band. E proposito di suoni, all’epoca, sono in molti a sostenere che il Fender Rhodes sia quello che maggiormente si avvicini ai timbri, alle dinamiche, a i colori, alle strutture del pianoforte acustico, necessitando quindi di un pieno virtuosismo da parte di chi lo gestisce, a differenza dei sintetizzatori, dove l’approccio può anche avvenire senza preparazione accademica. E tutto questo spiega anche il discreto entusiasmo con cui molti pianisti, durante i primi Seventies, accolgono il Fender Rhodes, persino al di fuori dei contesti jazz rock: a spulciare nelle discografie di quei momenti, anche solo a limitarsi al lustro 1970-1975, quasi non esiste un pianista, addirittura negli album solistici, che non utilizzi quello strumento (o di ditte similari) per creare qualcosa di nuovo: lo fa persino il debussiniano Bill Evans, vi si cimenta a lungo Franco D’Andrea con o senza il Perigeo, per non parlare di Sun Ra o di Ray Charles, fra i primissimi a farsi costruire apposite tastiere congeniali del resto alle loro rispettive tipologie musicali (free e soul). Poi, con il «ritorno all’ordine» del decennio successivo e con gli ulteriori perfezionamenti tecnologici – la Yamaha s’impone con un piano elettrico che si avvicina il più possibile al suono dello strumento classico – di colpo il Fender Rhodes va per così dire in soffitta, senza possibilità di appello, almeno in apparenza. Quel suono, leggermente metallico e proprio per questo personalizzato e riconoscibilissimo, non attrae più i giovani leoni del jazz, i quali riprendono a guardare, con fierezza, alla purezza della tradizione moderna, facendo passare per obsoleto o fuorviante tutto quanto sa di tradimento o modaiolo rispetto al jazz vero e proprio, identificato di fatto con il solo hard bop. Occorre aspettare almeno vent’anni prima che l’acid jazz o altre realtà giovanili scoprano quelle sonorità ormai ritenute vintage dei primi piani elettrici, riappropriandosene in maniera quasi museale come un autentico revival oppure tentando un’operazione nostalgia, giocando però, come fa benissimo Uri Caine, sul côté di un’estetica citazionista e postmoderna, così come altri solisti stanno rispolverando le tastiere di mezzo secolo prima, stufi della nuova elettronica digitalizzata che si avvicina troppo alla perfezione degli strumenti acustici o al contrario che si ostina a perseguire un’asettica fredda artificiosità.

IMPULSI
Per concludere, sempre nel 1931 lo svizzero-americano Adolph Rickenbacker realizza il primo pick-up elettromagnetico (dispositivo in grado di trasformare le vibrazioni delle corde in impulsi elettrici) iniziando ad applicarlo ai normali strumenti acustici, per creare quindi una chitarra lap steel chiamata frying pan guitar, George Beauchamp, nella stessa ditta, mette a punto The Rickenbacker «Frying Pan», a guardarla una sorta di chitarra, non a caso prodotta non per lo swing o il bluegrass di allora, bensì per musica hawaiana, fin dai Twenties popolarissima; il suono però è quello di un animo fiddle: ed ecco sorto l’antenato del moderno violino elettrico, che vedrà l’apoteosi popolare nel jazz degli anni Settanta grazie ad esempio a Jerry Goodman che, in seno alla Mahavishnu Orchestra, duetta alla pari con le svisate improvvise di John McLaughlin e Jan Hammer, rispettivamente alle chitarre e alle tastiere.
Violino e jazz a prima vista sembrerebbero antitetici, ma tornando indietro, in molte stampe, addirittura di fine Settecento, si possono osservare, schiavi neri che lo suonano per alleviare le fatiche dopo giornate di lavori durissimi o al contrario per accontentare i desideri o i capricci di qualche padrone, abbracciando uno strumento del resto assai popolare in quell’epoca, così come cent’anni dopo lo è la chitarra spagnola che, a sua volta, compare tra le mani dei primissimi jazzmen (in posa nelle formazioni-tipo) sulle varie fotografie New Orleans. Tuttavia entrambi – violino e chitarra – hanno vita difficile sia nelle marchin’ band sia nelle prime registrazioni discografiche, dal momento che le tecnologie di allora non consentono di bilanciare i loro suoni per così dire tenui con quelli pieni, corposi, invadenti dei fiati predominanti. Esistono tuttavia due fondamentali eccezioni, rispetto all’abbandono di violino e chitarra in seno alle dixieland band: da un lato il duo Joe Venuti e Eddie Lang – i quali comunque lavorano nell’orchestra ritmosinfonica di Paul Whiteman – risulta il primo a inventarsi un jazz cameristico, dall’altro con Le Quintette du Hot Club de France con Stéphane Grappelli e Django Reinhardt (più altri due chitarristi e un contrabbassista) scaturisce de facto l’etno jazz ante litteram mescolando sonorità zingare, parigine e ovviamente afroamericane. In mezzo ci può stare persino Duke Ellington, il quale chiede talvolta a Ray Nance un buon assolo violinistico. Per la chitarra, invece, con l’elettrificazione da Charlie Christian in avanti c’è spazio pure nel modern jazz (bebop, cool, hard bop, modale) inconsciamente deciso a rifiutare il violino, tranne nell’uso quasi classico nelle orchestre d’archi aggregate ai piccoli gruppi: l’album Charlie Parker with Strings è il prototipo ancora oggi citatissimo.
Ma il violino torna con il free jazz che guarda, magari inconsciamente, all’anarchia strumentistica prodotta dalla sperimentazione colta (emblematico l’uso maltrattamente antiaccademico di Ornette Coleman accanto a tromba e sax di plastica), mentre l’elettrificazione dello strumento arriva talvolta a farlo primeggiare nelle formazioni jazz rock e poi fusion, etno e world music con solisti di scuola francese e polacca quali Jean-Luc Ponty, Didier Lockwood, Zbigniew Seifert, Michael Urbaniak. Da allora, il violino fatica però a trovare una dimensione continuativa, nonostante nuovi artisti, come ad esempio la virtuosa Regina Carter – innovativa nell’accogliere anche la cultura bianca folk – che, nel bluegrass e nel country&western, riserva al violino grandi spazi e inedite dimensioni.