Quale eredità lascerà Alan Gilbert quando, nell’estate di quest’anno, lascerà la guida della New York Philharmonic Orchestra? I critici statunitensi e vasta parte del pubblico è pronta a riconoscere a Gilbert, primo americano di origine asiatica a guidare l’orchestra newyorkese, il notevole merito di aver infuso nuova linfa al repertorio della più antica fra le Big Five, le storiche cinque grandi orchestre americane. Oltre a Boulez, Messiaen e Ligeti il pubblico dell’orchestra ha potuto così ascoltare, mescolate al più rassicurante repertorio, prime esecuzioni di Benjamin, Corigliano, Eotvos, Unsuk Chin, HK Gruber, Christopher Rouse, Andrew Norman, Gerald Barry e di Steven Stucky, brillante talento scomparso prematuramente nel febbraio dello scorso anno.

Anche il novecento storico e gli autori nordici, Sibelius e Nielsen in particolare, hanno costituito un altro polo di esplorazione di Gilbert, che ha cambiato «pelle» all’orchestra anche in questo ambito Il grande repertorio classico-romantico, l’ossatura dei concerti di un’orchestra che data le sue origini al 1842 mantiene il consueto standard elevato, ma ha partecipato meno del quadro evolutivo generale.

Almeno a giudicare dal concerto presentato mercoledì 11 gennaio alla David Geffen Hall del Lincoln Center, in cui il Quinto Concerto di Beethoven ha offerto un singolare incontro-scontro fra il pianismo sensibile, cristallino e elegante di Stephen Hough e i marosi orchestrali suscitati da Gilbert, specie nel primo movimento e nell’estatica al rondò finale, con i tempi spesso troppo larghi e il vigore marziale che cedeva il passo a vere saturazioni bombastiche. Con la terza sinfonia di Brahms il disegno di solida ampiezza si è dispiegato, libero da contrasti e confronti, unito a una propulsione pronunciata dei passaggi lirici, nel poco allegretto soprattutto.

Una rapinosa esaltazione del suono denso e compatto degli archi e della brillantezza degli ottoni, che finiva per lasciare in secondo piano la cura dei dettagli e ridurre le possibilità di ottenere dall’orchestra pianissimi che non fossero vicini al mezzo forte. Certo, conta l’infelice condizione acustica della sala, ancora necessitante di una ulteriore revisione, a quanto pare una delle ragioni dell’abbandono di Gilbert. Alla fine successo vivo ma il brivido e l’esaltazione non c’erano. Chissà se Jaap van Zweden, il cinquantasettenne olandese scelto come successore di Gilbert a partire dalla prossima stagione, saprà imprimere la svolta che l’orchestra ha vissuto in area moderno-contemporanea anche nel repertorio classico-romantico.

Molti critici  hanno storto il naso, man van Zweden è una bacchetta dalla tecnica terribilmente solida, messa mirabilmente a frutto con l’Orchestra di Dallas, guidata per quasi dieci anni, soprattutto in applauditissime letture delle sinfonie di Beethoven. Ce ne sarà bisogno.