«Ho trascorso un anno e mezzo in coma», racconta Francesca Archibugi, durante la pausa pranzo di Il nome del figlio. «Mi era saltato un progetto cui tenevo moltissimo e al quale stavo lavorando da molto tempo. Il contraccolpo emotivo è stato molto duro».
Rifacimento italiano di Cena tra amici (Le prenom), la commedia transalpina diretta da Matthieu Delaporte e Alexandre De La Patèlliere, campione d’incassi in patria e non solo, Il nome del figlio si presenta come un detour pieno di nuove aperture nel percorso registico di Francesca Archibugi.
«Quando mi hanno chiamata per presentarmi il progetto non mi ero ancora ripresa dallo shock di avere perso l’altro film ma loro – e indica il cast e tutte le persone che si muovono sul set, tra cui i produttori Andrea Occhipinti e Fabrizio Donvito – mi hanno dato due pizze e mi hanno detto: ’Rimettiti al lavoro!’», ricorda sorridendo.
«Lo Cascioooo!», rimbomba la voce di Rocco Papaleo per le scale dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico a Roma. «Dove sei?». Si sta per girare una scena importante, ma l’atmosfera è quella di una rimpatriata. Circondata da un gruppo di attori che vanta fra gli interpreti quattro registi, Valeria Golino, Giuseppe Lo Cascio, Alessandro Gassman e Rocco Papaleo, oltre che Micaela Ramazzotti, Francesca Archibugi non nasconde il piacere di avere lavorato con «attoroni» e aggiunge: «Siccome tutti i registi sono psicotici, anche io sono convinta che con me hanno interpretato i migliori ruoli della loro carriera o almeno lo spero». «Le ho dovuto correggere un sacco di cose a Francesca quando giravamo», aggiunge divertito Papaleo mentre Lo Cascio rivela di avere girato contemporaneamente la «versione drammatica» del film.
Assorta davanti a un monitor, Francesca Archibugi controlla un piano sequenza cruciale. L’Accademia per l’occasione è stata trasformata in un ospedale, un’autocisterna innaffia via Vincenzo Bellini di pioggia artificiale creando una situazione autunnale che ai presenti sembra di gran lunga preferibile rispetto al caldo torrido che avvolge la capitale senza pietà alle 12.30 di un lunedì mattina. Comparse con sciarpe e impermeabili attraversano la strada mentre i tecnici bloccano momentaneamente il traffico.
La macchina da presa inquadra da dietro il vetro bagnato di una finestra dell’Accademia mentre Manuela Mandracchia, l’attrice che interpreta la madre di Valeria Golino e Alessandro Gassman, scende da un gippone per raggiungere il resto del cast. Questione di dettagli e di millimetri. La scena deve essere fluida. La macchina da presa muove da Gassman verso il resto del cast per poi arretrare lentamente e seguire l’avanzare dell’interprete per le scale. Si ripete la scena varie volte, maestranze e tecnici continuano a urlare istruzioni, prima che il piano sequenza abbia il tono giusto.

Assente dal set (di un lungometraggio almeno) dal 2009, anno di Questione di cuore, la regista prova un piacere visibile a essere circondata dai suoi interpreti. L’impressione guardandosi intorno s è quella di un mondo nel quale Francesca Archibugi si afferma attraverso una presenza discreta ma ferma.
Previsto in uscita il prossimo gennaio, Il nome del figlio ha avuto cinque settimane di lavorazione fra Roma e Castiglioncello, anche se in un primo momento si era pensato all’Argentario. Coprodotto da Lucky Red, Indiana (dalla quale è partita la proposta del film) e Motorino amaranto, il film, dichiara con un evidente orgoglio Andrea Occhipinti, «Non ha ricevuto alcun contributo o finanziamento da parte di televisioni». «Non sappiamo nemmeno se lo venderemo alla tv» aggiunge con un sorriso ironico.
«Comunque ci tengo a precisare che non si tratta di un rifacimento pedissequo – precisa Francesca Archibugi – In realtà siamo andati alla fonte della commedia teatrale e l’abbiamo adattata alla nostra realtà». «Con Francesco Piccolo, che ha lavorato sul testo, abbiamo tentato di avvicinare il soggetto alla realtà italiana dei nostri giorni – spiega la regista – Se dovessi definire il film, direi che si tratta di un Carnage familiare in forma di commedia. Non è feroce e spietata come Carnage, fa anche ridere. Io preferisco i film nei quali si avverte il calore umano. Per questo motivo mi piace pensare a Il nome del figlio come a una commedia corale sentimentale in senso stretto. E poi, rispetto all’originale, c’è una sorpresa che non rivelo».

La sorpresa stuzzica. Qualcuno insiste. Si tratta del nome del bambino? Nell’originale era il nome, Adolphe, la causa del conflitto. «Sì – concede la regista – La sorpresa è legata al nome». Benito?, insiste qualcuno. Lo chiamerete Matteo? O Beppe? Lei lascia correre.
«Il nome del figlio è una riscrittura totale», aggiunge Fabrizio Donvito di Indiana. «La forza del nostro film è che è calato in una realtà completamente italiana», sottolinea Occhipinti.

«Anche se siamo tutti immersi in questa pappa di ceto medio – continua Archibugi – le lotte di classe sono solo sopite. Nel mio film rappresentano un elemento importante e saranno alla base di molti scontri. Siamo esseri umani, in fin dei conti, poveri vermi che siamo».

«Ci sono tensioni che inevitabilmente vengono fuori – spiega Gassman – Il mio personaggio, un opportunista, ma che ci sa fare, un immobiliarista che regala il gippone alla madre e che è abile a fare i soldi, è convinto che questo paese, in cui tutti si lamentano, alla fine sta bene proprio a tutti. Quando vai a scavare, però, finisci per riportare alla luce conflitti che morti non lo sono mai stati davvero e che quindi scoppiano con una certa violenza».

«Non direi che sono sempre i francesi a fare meglio le cose, anche se loro le sanno indubbiamente fare. I francesi hanno imparato tantissimo dal cinema di Ettore Scola che ha conosciuto un grandissimo successo in Francia. Sono i francesi che hanno imparato a rifare film come La terrazza, La cena e La famiglia. Sono i francesi che imparato a fare un cinema à la Scolà» dice ancora Archibugi. «Per me questo film è stato un’esperienza insolita e appassionante. Per gran parte è ambientato in una casa e prima delle riprese abbiamo potuto provare per due settimane».

«Per un attore si tratta davvero di un’esperienza unica – spiega Papaleo – Non mi è mai capitata in Italia una situazione di questo tipo. In alcuni giorni abbiamo fatto anche ventotto pagine tutte d’un fiato che equivalgono a un piano sequenza di 15 minuti». E poi, rivolgendosi a Archibugi: «Non la dovevo dire questa cosa?».

L’accenno al film corale evoca Le meraviglie di Alice Rohrwacher. Qualcuno chiede. Archibugi risponde: «Mi è piaciuto tantissimo», e si capisce che non si tratta di diplomazia fra colleghe. Resta la curiosità del film saltato è che è stato causa del momentaneo esilio dal set. «Pensarci mi fa ancora male, ma d’altronde se si vuole fare un film interpretato da un ragazzino afghano, non è che i soldi arrivino immediatamente da tutti le parti. Si trattava di un progetto cui ero molto legata e quando sembrava che finalmente si poteva partire, il mondo del cinema è esploso».