Che sapore ha Peshawar? A chiedere a uno di quei ragazzi pieni di voglia di viaggiare che negli anni Settanta attraversavano l’Asia per andare nella valle dei templi di Kathmandu o alla ricerca di un guru indiano che spiegasse loro quel che a scuola non si insegna, la risposta non potrebbe essere che tè: tè al latte. Eri appena sceso dal pullman che dall’Afghanistan, attraverso il mitico Passo di Khyber – la porta dell’Asia del Sud e del subcontinente indiano – ti aveva appena depositato a Peshawar, che era l’ora di un inevitabile cai. All’epoca le categorie di assetati erano di due tipi: quelli che bevevano cold drinks – Coca Cola estratta da secchi di acqua ghiacciata – e per un attimo di abbacinato refrigerio pagavano poi il prezzo di sudate prepotenti. E quelli più tranquilli, più baba si sarebbe detto, che bevevano tè. Tè nero e forte a Istanbul, verde a Kabul. Poiché il Viaggio all’Eden si faceva di solito nelle vacanze estive (la stagione più torrida in Asia e la peggiore per visitarla), la battaglia col caldo non finiva mai.

I viaggiatori da un pezzo però sapevano che solo il tè caldo ripristina le necessità idriche senza aggiungere nuova sete. Ed eccoci al tè al latte, invenzione eminentemente britannica e diffusa in tutte le terre indiane. A Londra lo versano col colino, nella Indie lo preparano miscelando tè e latte con un rapido movimento del braccio e lo fanno ribollire. Zuccherato.

Il Pakistan non è India ma Peshawar, città accaldata e apparentemente indolente ormai abitata prevalentemente da patani e afgani, era allora un’anticipazione netta della grande India delle pianure. E non solo per il sapore del tè al latte. Per l’odore dello sterco di vacca o di cavallo ad esempio, o per i tanti del Punjab – la provincia ricca e più popolosa – che allora l’abitavano. Con l’odore e il sapore delle cose mettevi allora in fila i pezzi di ricordi che si andavano affastellando nel grande viaggio che ormai era entrato nel vivo. Le Drina jugoslave, ad esempio, col loro sapore di tabacco macedone (oggi hanno il pacchetto con la scritta in tre lingue – serbo, croato e bosniaco – che sono perfettamente identiche) e poi quelle sigarettine fini fini che si acquistavano in Iran dopo un passaggio obbligato per le Ikinci e le Birinci, le «nazionali» turche, temibili quanto le nostre Sax o le Napoleon Bleu, le Enneblù o Nazionali semplici d’antan). In Afghanistan invece, sigarette di produzione locale non ce n’erano. Già allora i pachistani comandavano fette di mercato e avevano imposto le Kappa2, sigarette con l’Himalaya in copertina. Le sigarette non erano solo un vizio, per altro diffusissimo, ma un’esigenza diciamo imprescindibile per arrotolare una canna, riempire una pipa ad acqua, «rollare» uno spinello, una tra le attività precipue della Banda dell’Eden. Peshawar però riservava altre sorprese. E il primo vero incontro con le «droghe pesanti», non così diffuse a Kabul.

Il Rainbow Hotel e il National erano le stazioni di fermata obbligate. Dal Rainbow partivano le corriere per Pindi o Lahore, ma era affacciato su una palude d’olio di macchina proveniente da un’officina dove ogni mattina si produceva febbrile lavoro e altrettanto baccano. Il National costava forse un po’ meno ed era decisamente messo male ma in compenso era silenzioso.

Il viaggiatore che ci torna qualche decennio dopo, lo trova ancora in servizio e si accorge, cosa che allora gli era totalmente sfuggita, che dietro quell’aria fatiscente, i muri sporchi e il cortile che rimbomba di schiamazzi l’edifico è un meraviglioso palazzo di epoca mogul che ha e aveva perso il suo smalto ma, a una seconda occhiata, non certo il suo fascino. Il vero fascino del National però era perverso. Il Pakistan non era solo terra di produzione di oppio e di hascisc – di un verde scuro e intenso ma considerato di serie B – ma aveva anche enormi scorte di morfina prodotta dalla casa farmaceutica Merck, che aveva iniziato a commercializzarla nel 1827 dopo che nel 1804, a Paderborn in Germania, Friedrich Sertürner aveva scoperto le doti, salvifiche e terribili, di quel primo alcaloide isolato ed estratto dal papavero.

[do action=”citazione”]Nel 1827 la Merck iniziò a vendere la morfina in pasticche. Il prezzo delle «peshawar» era irrisorio. Ma non lasciavano scampo[/do]

Chissà se per via della vicinanza al luogo di produzione primaria, chissà per quale giro di cargo o di stoccaggi, Peshawar pullulava di pillole di morfina della Merck al punto che queste erano volgarmente chiamate «peshawar». Il loro prezzo era irrisorio e il prodotto di primissima qualità per non dire della possibilità di comprarlo da un medico in camice bianco. Contrariamente all’hascisc, che si poteva dimenticare un giorno coll’altro, e a differenza anche dell’oppio, la cui dipendenza arriva lentamente, le «peshawar» non lasciavano scampo. Diluite in un cucchiaio con acqua distillata – quando andava bene – e risucchiate dall’ago di una siringa, le «peshawar» penetravano nella mente ma soprattutto nel corpo di chi aveva ceduto alla tentazione trascinandolo, il più delle volte, nell’inferno di una vita da junkie, chi vive cioè – come descrive nel libro omonimo un esperto in materia come William Burroughs – con la «scimmia sulla schiena», sempre pronta a tirargli la giacca per una dose.

Molti ragazzi finiti nelle grinfie delle «peshawar» e che, nella capitale della morfina, si erano illusi di poter andare avanti a lungo per via del prezzo popolare, arrivavano a rimanere presto senza una rupia e senza un tetto. Il National provvedeva allora, con pelosa solidarietà, a procurare loro dei torridi mini-loculi di lamiera installati sul tetto dell’edificio. Questi sgangherati ragazzotti, smagriti dallo stupefacente e da una dieta imposta dalle ristrettezze finanziarie, sbarcavano il lunario con piccoli lavoretti illegali, primo tra i quali lo smercio delle stesse «peshawar» da cui ricavare la dose quotidiana.

Le ambasciate nella lontana Islamabad li ignoravano e le famiglie spesso li davano per persi. Mendicanti che conservavano comunque una loro dignità – con un piccolo gilet ricamato, una collanina, un foulard – e che si salvavano da poliziotti e criminali sia perché non avevano più dollari, sia perché erano bianchi. E vegetavano al National aspettando che il sole calasse sulle loro gabbie di metallo, prigioni da cui uscivano per bere un tè, succhiare uno yogurt, spillare qualche rupia al tizio di passaggio.

Peshawar è ancora una città dove le droghe si trovano senza difficoltà. Ma oggi è molto altro. Ospita oltre un milione di afgani ed è cresciuta a dismisura negli anni della guerra grazie a un diluvio di denaro che, da Riad o da Washington, piovevano sulla resistenza dei mujaheddin che l’avevano eletta loro sede legale e organizzativa. A Peshawar è vissuto bin Laden, ha girato i film di Rambo Silvester Stallone, sono state costruite sedi importanti dell’Onu e decine di campi profughi. La città nata attorno al Cantonnement britannico che forse faceva 500mila abitanti, è oggi una metropoli, capitale della provincia di Khyber Pakhtunkhwa e de facto delle aree tribali (Fata) ma al contempo è diventata molto a rischio. Anche i talebani locali (Tehrek-e-Taliban Pakistan) la considerano la loro capitale. Vive lì Rahimullah Yusufzai, una delle icone del giornalismo nazionale, anziano e flemmatico pashtun come rivela il cognome. Ha intervistato più di una volta bin Laden e una dozzina di volte il mullah Omar, ma non ha nulla della spocchia che potreste immaginarvi da un personaggio così. Una volta gli abbiamo chiesto qual è il posto più pericoloso dove vivere in Pakistan, se le aree tribali, la montagna, la zona di Khyber. «Peshawar» ci ha candidamente risposto.

La palma della città più pericolosa Peshawar l’ha sottratta a Karachi, città teatro di una guerra civile a bassa intensità tra autoctoni della provincia del Sindh e mohajir, eredi di coloro che nel ’47 emigrarono nel neonato Pakistan dall’India, in una delle migrazioni di massa più numerose e atroci della storia.

Poco più a Occidente, verso l’Iran, c’è la città di Quetta, che dicono sia la sede di mullah Omar. Durante il Viaggio all’Eden, chi era stato a Quetta godeva di grande rispetto per un’avventura fuori dalla rotta classica che prevedeva di solito, e piuttosto rapidamente, il tragitto da Peshawar a Lahore (11 rupie, ossia un dollaro, in terza classe), ultima caldissima tappa prima dell’arrivo nell’agognata India. Lahore viene considerata con Istanbul una delle perle dell’islam. Ha monumenti mogul affascinanti, belle moschee ed edifici lasciati dagli inglesi che avevano una debolezza per questa città punjabi, affascinante e torrida nei mesi estivi, che offriva numerose sistemazioni con ventilatore al soffitto ma anche una folla di curiosi che esibivano un ricorrente ritornello: «Hallò mistér, which country you belong»? La cosa infastidiva per l’eccesso di zelo ma forse anche perché, almeno noi italiani, l’inglese lo parlavamo assai peggio di loro.

La frontiera era a un passo. A una cert’ora chiudeva con cerimonie dalle due parti di picchetti e alza bandiera con cui ogni Paese sottolineava la sua identità nata dalle ceneri del Raj. I doganieri la sapevano lunga. Cercavano due cose: rupie indiane comprate al black market di Lahore e naturalmente l’«afgano nero» di qualche improvvisato spacciatore internazionale. Erano tutti accorti ma una donna in particolare, nell’elegante sari che le dava un tocco di regalità, ti fissava con occhi di ghiaccio insostenibili. Non c’era bisogno di far domande, se avevi qualcosa sbragavi subito. Ma, fosse un etto o fosse un chilo, la legge non era uguale per tutti. Chi finiva in galera ad Amritsar anche per sei mesi e chi, un’ora dopo, era già fuori. Alleggerito delle rupie e anche di qualche dollaro del tesoretto necessario per arrivare a Kathmandu e ritorno.

(6 – continua. Le altre puntate sono uscite il 20, 21, 23, 27 e 29 agosto)