Il numero chiuso è un’infamia in qualunque branca del sapere. Il voto del senato accademico milanese che lo ha esteso alle facoltà umanistiche che, fino ad oggi, non vi dovevano sottostare (storia, filosofia, geografia, beni culturali), la porta ora a compimento.

Con il che la formazione culturale entra ufficialmente a far parte dei generi voluttuari, dei diritti di serie B. Immaginiamo la stessa logica applicata alla sanità: più di tanti non ne curiamo; o alla giustizia: più di tanti non ne processiamo. Nei fatti accade proprio così, ma a nessuno verrebbe in mente di farne un principio o una norma. La contraddizione tra il diritto garantito e la sua effettività rimane almeno aperta, un problema da risolvere.

Nell’università, invece, la servile accettazione di una costante e vergognosa riduzione delle risorse si esprime nella moltiplicazione delle barriere all’ingresso, non di rado tramite test progettati sotto l’effetto dell’acido lisergico. Non dovrebbe sfuggire a nessuno il fatto che il numero chiuso legittima, normalizza o addirittura trasforma in una qualità etica il taglio delle risorse, preparando il terreno per ulteriori riduzioni della spesa. Come è accaduto alla statale di Milano il corpo accademico, nel quale certo non abbondano grandi maestri dalle lezioni imperdibili (il che dovrebbe aiutare a ridurre la calca), tende a dividersi. La maggioranza ragiona così: intanto chi sta dentro rimane dentro, dunque perché affannarsi a trovare soluzioni tampone o battersi affinché la politica cambi rotta?

Assai più semplice ridurre forzosamente il numero (già in forte declino) degli studenti e la pressione su di noi. Con la promessa di una qualità dell’istruzione del tutto fantasmagorica in una accademia nella quale la compilazione dei moduli e gli adempimenti burocratici hanno reso lo studio «un miserabile residuo». Questa posizione corrisponde a un corporativismo non si sa se più sclerotico o furbastro.
La minoranza capisce, invece, che la catena dei tagli non avrà fine e che il numero chiuso non è altro che una scelta suicida la quale, prima o poi, condurrà alla soppressione pura e semplice di un certo numero di insegnamenti. E allora nessuno sarà più al sicuro. L’ eterno mantra sull’adeguamento della formazione alle richieste del mondo del lavoro (dopo innumerevoli fallimenti ancora caparbiamente inconsapevole della sua impossibilità logica) per le facoltà umanistiche non può che significare l’estinzione.

Questa consapevolezza richiederebbe, tuttavia, una mobilitazione permanente di studenti e docenti e un sabotaggio attivo dei dispositivi di controllo e di esclusione. Infine, una battaglia di ampio respiro contro la concezione lavorista dell’istruzione ed economicista della cultura che domina incontrastata da decenni.

Vi sono, però, istituzioni culturali che uno stato sviluppato non può permettersi di chiudere. Per esempio una Biblioteca nazionale, per esempio sedi museali importanti anche se meno frequentate. Così provvede al loro funzionamento il ricorso al lavoro semigratuito (e a volte del tutto gratuito) di presunti «volontari» presi per il collo dalla mancanza di alternative e forse, nel futuro, costretti alla corvée del servizio civile obbligatorio proposto dalla ministra della difesa Pinotti.

La vicenda dei cosiddetti «scontrinisti» della Biblioteca nazionale romana conferma ancora una volta come gran parte delle istituzioni culturali italiane (comprese le università del numero chiuso) sarebbero destinate alla paralisi senza il ricorso al lavoro gratuito o vergognosamente sottopagato, mascherato da passione volontaria, da formazione permanente o da altro ancora. Non si tratta di una emergenza, di una situazione transitoria, bensì di un elemento sistemico imprescindibile e consolidato. Resta da chiedersi perché, limitando l’accesso alle facoltà umanistiche si voglia ridurre il bacino che alimenta questo processo di sostituzione del lavoro equamente retribuito con il finto volontariato. Forse perché le diverse corporazioni si premurano di proteggere il solo segmento che le riguarda. Ma forse anche perché le maggiori aspettative suscitate da un livello di istruzione generale più elevato, politicizzandosi, potrebbero fare esplodere gli scellerati equilibri, i ricatti e le vessazioni che dietro l’insopportabile retorica sull’unicità del patrimonio culturale italiano ne costituiscono l’effettiva gestione.